Il
Consiglio di Stato con la
sentenza n. 5239/06 dell’11
settembre 2006, respingendo il ricorso di un ingegnere civile
il cui progetto di restauro non era stato accettato dalla
Soprintendenza per i beni ambientali e architettonici perchè
“redatto da un tecnico non abilitato, in quanto non iscritto
all’albo degli architetti” econfermando una precedente pronuncia
del Tar Toscana,
stabilisce che sui progetti di restauro la
competenza è esclusivamente degli architetti.
In definitiva, il Consiglio di Stato precisa, dunque che
è
valida la norma di cui all’articolo 52 del Regio Decreto 22 ottobre
1925, n. 2537, secondo cui “
le opere di edilizia civile che
presentano rilevante carattere artistico ed il restauro e il
ripristino degli edifici contemplati dalla legge 20 giugno 1909, n.
364 per l’antichità e belle arti, sono di spettanza della
professione di architetto, ma la parte tecnica può essere compiuta
tanto dall’architetto quanto dall’ingegnere”,
Nel ricorso era stato osservato che l’art. 52 del Regio Decreto 22
ottobre 1925, n. 2537, secondo cui “le opere di edilizia civile che
presentano rilevante carattere artistico ed il restauro e il
ripristino degli edifici contemplati dalla legge 20 giugno 1909, n.
364 per l’antichità e belle arti, sono di spettanza della
professione di architetto, ma la parte tecnica può essere compiuta
tanto dall’architetto quanto dall’ingegnere”, deve ritenersi
abrogato dalle successive disposizioni in materia.
Era stato, poi, precisato che per effetto della direttiva
comunitaria 10 giugno 1985, n. 384 in tema di riconoscimenti dei
titoli di studio, le cui disposizioni sono direttamente applicabili
e prevalgono sul diritto interno dei paesi membri della CEE, gli
ingegneri civili laureati prima della entrata in vigore della
direttiva sono automaticamente abilitati in tutta la Comunità (e
quindi anche in Italia) all’esercizio della professione di
architetto.
Il
Consiglio di Stato ha risposto che “
la Direttiva
85/384 non si propone di disciplinare le condizioni di accesso alla
professione di architetto, né di definire la natura delle attività
svolte da chi esercita tale professione”, ma ha invece ad
oggetto solamente “il reciproco riconoscimento, da parte degli
Stati membri, dei diplomi, dei certificati e degli altri titoli
rispondenti a determinati requisiti qualitativi e quantitativi
minimi in materia di formazione allo scopo di agevolare l’esercizio
effettivo del diritto di stabilimento e di libera prestazione dei
servizi per le attività del settore della architettura…”.
In definitiva, secondo la Corte, la direttiva non impone allo Stato
membro di porre i diplomi di laurea in architettura e in ingegneria
civile indicati all’art. 11 su un piano di perfetta parità per
quanto riguarda l’accesso alla professione di architetto in Italia;
né tantomeno può essere di ostacolo ad una normativa nazionale che
riservi ai soli architetti i lavori riguardanti gli immobili
d’interesse storico-artistico sottoposti a vincolo.
I giudici hanno quindi concluso che la ripartizione delle
competenze professionali tra architetto e ingegnere, come definita
nell’articolo 52, del Regio Decreto n. 2537/1925, non è venuta meno
per effetto della normativa successiva che ha innovato la
disciplina per il conseguimento del titolo di architetto e di
ingegnere.
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