Concessioni pubbliche, contratti “capestro” e proroghe ex lege: Allo Stato conviene annullare e non revocare

Il drammatico crollo del ponte “Morandi” di Genova ha messo in luce alcune “anomalie” nel mondo delle concessioni pubbliche e ha posto numerosi interrogativi...

22/08/2018

Il drammatico crollo del ponte “Morandi” di Genova ha messo in luce alcune “anomalie” nel mondo delle concessioni pubbliche e ha posto numerosi interrogativi giuridici circa gli strumenti normativi di cui può disporre la Pubblica Amministrazione per sciogliersi da un vincolo negoziale “squilibrato” a vantaggio del privato e per lo più instauratasi a seguito di numerose proroghe ex lege succedutesi negli anni. Una situazione, quest’ultima, del resto, non solo esistente in ambito infrastrutturale, ma anche in altri settori, quali quello idrico o delle telecomunicazioni.

In sede dell’annunciato riesame dell’intero sistema concessorio pubblico, dunque, il Governo si troverà certamente di fronte ad altri casi di concessioni prorogate negli anni ex lege e, peraltro, disciplinate da convenzioni ben poco remunerative per le casse dello Stato, ma molto convenienti, invece, per gli interessi privati.

Le righe che seguono si propongono, di stimolare una riflessione giuridica generale che consenta di analizzare gli strumenti giuridici predisposti dall’ordinamento per consentire allo Stato eventualmente di sciogliersi da possibili contratti “capestro”, e ciò, a prescindere da qualsiasi rilievo in ordine ad eventuali profili di responsabilità per inadempimento sussistenti in capo al privato.

Nell’affrontare tale analisi, in via preliminare, non può non notarsi come alcuni commentatori assumano aprioristicamente che, in generale, le convenzioni disciplinanti le modalità di esecuzione e attuazione della predetta concessione siano ex se valide ed efficaci e che, pertanto, lo Stato, per sciogliersi anticipatamente dallo svantaggioso vincolo negoziale che ne deriva, dovrebbe doverosamente osservarne il contenuto e le procedure, compreso, ove previsto, l’obbligo di pagamento in favore della concessionaria di un enorme “rimborso”.

Ma è questa l’ottica giuridica corretta per esaminare “se” e “come” convenga allo Stato caducare una concessione? Probabilmente no.

Occorrerà infatti non dare nulla per scontato, ma analizzare - caso per caso - il contenuto delle stesse singole convenzioni attuative, perché invero potrebbero essere esse stesse affette da vizi invalidanti di tale portata da non consentirne in toto l’applicabilità. Si pensi ad esempio, al caso di una disciplina pattizia che infici il necessario equilibrio del sinallagma contrattuale mediante vantaggi eccessivi in favore del privato a fronte, invece, di eccessivi oneri e obblighi previsti a carico dello Stato.

Per verificare ciò, tuttavia, occorrerà alzare lo sguardo non limitandosi alla lettura pedissequa della convenzione in quanto tale e sarà quindi necessario estendere l’analisi all’insieme della normativa civilistica e pubblicistica in materia che, in quanto primaria, non può che prevalere sulle stesse disposizioni negoziali, dettandone direttamente la disciplina.

Le ragioni di ordine “privatistico”

In tale ottica di analisi, come accennato, rilevano anzitutto tutte quelle disposizioni poste dal legislatore a presidio non solo della libertà negoziale delle parti, ma anche dell’equilibrio economico-giuridico del contratto che, ove violate, non possono che comportare la nullità dell’intero negozio giuridico. Segnatamente: l’art. 1229 del codice civile in base al quale E’ nullo qualsiasi patto che esclude o limita preventivamente la responsabilità del debitore per dolo o per colpa grave. È nullo altresì qualsiasi patto preventivo di esonero o di limitazione di responsabilità per i casi in cui il fatto del debitore o dei suoi ausiliari costituisca violazione di obblighi derivanti da norme di ordine pubblico”. E ancora, l’art. 1419 del codice civile, ai sensi del quale: La nullità parziale di un contratto o la nullità di singole clausole importa la nullità dell’intero contratto, se risulta che i contraenti non lo avrebbero concluso senza quella parte del suo contenuto che è colpita da nullità. E non vi è chi non veda, ad esempio, come rendere lo scioglimento del vicolo negoziale oneroso e quasi “impossibile” per una delle due parti (quella pubblica) non sia rispettoso né dell’equilibrio negoziale nell’esecuzione delle prestazioni, né del sinallagma contrattuale, né della stessa ragione economico-sociale (recte: causa) del contratto (cfr. art. 1418 c.c.).

Insomma, un’eventuale dichiarazione di nullità dell’intera convenzione che parta anche dal solo esame “negoziale” e “testuale” del suo contenuto analizzato alla luce delle predette disposizioni codicistiche, non solo è tutt’altro che peregrina, ma probabilmente più corretta ed anche auspicabile, sia perché ancorata a parametri oggettivi di riferimento che prescindono da valutazioni soggettive in ordine ad eventuali accertamenti  di responsabilità, sia perché ciò farebbe decadere ipso facto ed ex ante, peraltro con effetto retroattivo, la legittimità di qualsiasi esorbitante pretesa economica del privato fondata su una convenzione “nulla”.

Le ragioni di ordine “pubblicistico”

Ma vi sono anche argomenti di ordine “pubblicistico” che consentirebbero di declinare la caducazione di una convenzione nella forma della nullità o, più correttamente, dell’annullamento in autotutela. Non può non considerarsi, infatti, come ogni convenzione disciplini le concrete modalità attuative di un “potere a monte” ed ex se di natura amministrativa, quello concessorio.

Ebbene, è accaduto che per consentire una proroga sostanzialmente illimitata del regime concessorio in capo allo stesso concessionario, altrimenti vietata dall’ordinamento comunitario e nazionale per violazione dei principi in materia di evidenza pubblica, i Governi siano ricorsi allo strumento legislativo (legge o decreto legge). Di tale espediente, tuttavia, si è occupato a più riprese lo stesso Consiglio di Stato, che ha rilevato, anche recentissimamente (cfr. sentenza n. 3412 del 6 giugno 2018) in tema di concessioni idriche, come le norme primarie “in contrasto con il diritto comunitario e che prevedono una proroga, o un rinnovo, ex lege delle concessioni vigenti, devono essere disapplicate”.

Tale sentenza, dunque, ha sancito, da ultimo e in via generale, l’incompatibilità con l’ordinamento comunitario di una normativa che contempli le proroghe ex lege della data di scadenza delle concessioni, ritenendole equivalenti ad un rinnovo automatico, sì da impedire l’indizione della doverosa procedura selettiva.

Al riguardo, la stessa Corte costituzionale con sentenza n. 180 del 2010 aveva avuto modo di dichiarare l’illegittimità di leggi regionali che avevano previsto, pur se a talune condizioni, la proroga automatica delle concessioni del demanio marittimo a favore del soggetto già titolare, evidenziando come “la proroga o il rinnovo automatico, determinando una disparità di trattamento tra operatori economici mediante preclusioni o ostacoli alla gestione dei beni demaniali oggetto di concessione, violino, in generale, i principi del diritto comunitario in tema di libertà di stabilimento e tutela della concorrenza”.

Ciò, nel doveroso rispetto dei principi di primazia del diritto comunitario, che ne impone la puntuale osservanza ed attuazione, “senza necessità di attendere la modifica o l’abrogazione delle disposizioni nazionali contrastanti da parte degli organi nazionali a ciò preposti (cfr. Corte giust. 5 dicembre 2004, cause riunite da C-397/01 a C-403/01).

Alla luce di quanto evidenziato, dunque, secondo una lettura più restrittiva di quanto ritenuto dalla conforme giurisprudenza sopra richiamata, ricorrerebbe un’ipotesi di nullità del provvedimento concessorio, allorché lo stesso sia stato adottato in base a una norma interna incompatibile con il diritto dell’Unione europea, e, quindi, disapplicabile. Si avrebbe cioè un’ipotesi di carenza di potere, dal momento che la normativa nazionale attributiva del potere andrebbe disapplicata e la sua disapplicazione genera non l’annullabilità, bensì la nullità del provvedimento perché viene meno il fondamento del potere di emanarlo” (cfr. Consiglio di Stato sentenza del 31.3.2011, n. 1983).

Secondo una lettura meno rigorosa, invece, il provvedimento concessorio il cui contenuto sia in contrasto con norme o principi comunitari, ancorché in attuazione di norme di legge anti-comunitarie, non potrebbe essere semplicemente disapplicato dall’amministrazione in quanto nullo, ma dovrebbe essere comunque rimosso con il ricorso ai poteri di autotutela di cui la stessa amministrazione dispone e segnatamente di quello di annullamento, con la conseguenza, anche in questo caso, di una caducazione della concessione senza alcun esborso da parte dello Stato (cfr. in tale senso, Consiglio di  Stato, Sez. V, Sentenza n. 4263 dell’8/09/2008) e senza la necessità di emanare previamente alcun provvedimento legislativo.

Conclusioni

La caducazione di una convenzione concessoria, valutata ex post illegittima dallo Stato, per le ragioni di ordine privatistico e pubblicistico sopra esaminate, potrebbe dunque essere efficacemente declinata nella forma della nullità oppure dell’annullamento in autotutela.

Ciò, non solo sarebbe maggiormente aderente ai principi di diritto cristallizzati dalla Giurisprudenza in materia, ma avrebbe diverse conseguenze positive per lo Stato, quale anzitutto, quella di dare una risposta celere alle attese dei cittadini, prima e a prescindere dai tempi della giustizia in ordine all’accertamento di eventuali responsabilità nell’esecuzione della convenzione.

E, inoltre, indipendentemente dall’emanazione di un atto legislativo ad hoc modificativo del provvedimento legislativo di proroga, probabilmente superfluo, ciò avrebbe l’indubbio vantaggio di non dover versare alcunché alla concessionaria (ancorché previsto dalla convenzione), proprio in virtù dello scioglimento anticipato di un vincolo negoziale che - invero - così come normato mai sarebbe dovuto sorgere.

A cura dell’Avv. Andrea Napoleone

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