Abusi edilizie: quando si può applicare la sanzione alternativa all'ordine di demolizione?

Il TAR per il Lazio chiarisce quando si può applicare la sanzione alternativa all'ordine di demolizione ai sensi dell'art. 34, comma 2 del DPR n. 380/2001

di Redazione tecnica - 03/12/2020

L'art. 34, comma 2 del D.P.R. n. 380/2001 (c.d. Testo Unico Edilizia), nel caso di interventi e opere realizzati in parziale difformità dal permesso di costruire, prevede la possibilità per la pubblica amministrazione di applicare una sanzione amminstrativa quando la demolizione non può avvenire senza pregiudizio della parte eseguita in conformità.

Abusi edilizie e sanzione alternativa: nuova sentenza del TAR

Una "possibilità" che ha spesso generato dubbi applicativi sfociati naturalmente in ricorsi e sentenze. Tra le quali ricordiamo la sentenza n. 5128 del 31 agosto 2018 con la quale il Consiglio di Stato ha ricordato che "La possibilità di sostituire la sanzione demolitoria con quella pecuniaria deve essere valutata dall'Amministrazione competente nella fase esecutiva del procedimento, successiva ed autonoma rispetto all'ordine di demolizione: il dato testuale della legge è univoco ed insuperabile, in coerenza col principio per il quale, accertato l'abuso, l'ordine di demolizione va senz'altro emesso" e la più recente sentenza n. 12785 dell'1 dicembre 2020 con la quale il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio ci consente di ritornare ad approfondire l'argomento.

Abusi edilizie e sanzione alternativa: il ricorso

Sono i proprietari di un immobile sito in centro storico a proporre ricorso contro un'amministrazione comunale e impugnare l'ordinanza di demolizione di alcuni interventi edilizi ritenuti abusivi, quindi realizzati senza alcuna autorizzazione. Si parla della copertura di un cortile interno del fabbricato, di una soffitta, di una scala interna e di un solaio di una terrazza, oltre ad un soppalco.

Richiesta di condono e sanzione amministrativa

Tra i motivi del ricorso, il fatto secondo cui l'amministrazione, prima di "staccare" la multa avrebbe dovuto analizzare e definire le domande di condono. Per i giudici si tratta di una cosa vera se e solo se, l'amministrazione ha già avviato un procedimento di condono e le opere edilizie per le quali si è chiesta la sanatoria, non fossero state arbitrariamente modificate come è avvenuto nel caso analizzato, che avrebbero dunque avuto necessità di un permesso di costruire o una Scia. E' stato semplice, tra l'altro, dimostrare le differenze tra i progetti presentati per le varie richieste di condono e poi quello effettivamente realizzati attraverso i sopralluoghi dell'ufficio tecnico.

Ripristino dei luoghi e multa

Viene anche contestata all'amministrazione comunale il fatto che, prima di imporre la demolizione, avrebbe dovuto valutare meglio l'impossibilità di ripristino dei luoghi. Per i giudici del Tar "la possibilità di sostituire la demolizione con la sanzione pecuniaria viene valutata in un secondo momento, successivo ed autonomo rispetto alla diffida a demolire ossia quando il soggetto privato non ha ottemperato spontaneamente alla demolizione". Per questo e di conseguenza, si legge nella sentenza, "l'esito negativo ovvero eventualmente superficiale di tale valutazione non può costituire un vizio dell'ordine di demolizione, ma al più della fase di esecuzione in danno". Quindi in fase esecutiva dell'ordinanza di demolizione, il comune dovrà verificare le conseguenze di questo provvedimento e quindi decidere se al suo posto, comminare una sanzione pecuniaria.

Ordine di demolizione e Sovrintendenza

Visto che si tratta di un immobile che si trova in pieno centro storico, viene contestato il fatto che l'amministrazione comunale non abbia richiesto il parere della Sovrintendenza se disporre o meno l'ordine di demolizione. In realtà, dicono i giudici, una richiesta da parte del comune c'è stata. A questa richiesta, però, la Sovrintendenza non ha mai risposto. Per questo, secondo l'articolo 33 (comma 4) "qualora il parere non venga reso entro novanta giorni dalla richiesta il dirigente o il responsabile provvede autonomamente". Cosa che qui è avvenuta.

Soffitta, da deposito ad abitazione

Si parla, nel ricorso, anche della modifica di uso della soffitta da "deposito" ad "abitazione". Dai sopralluoghi effettuati, è emerso che la soffitta è stata interessata da interventi di ristrutturazione, compreso l'innalzamento della quota di imposta, per renderla "abitabile". Oltre alla realizzazione di un ingresso al termine della scala di collegamento. Quindi, per i giudici, si tratta non di una soffitta "non accessibile dall'abitazione", ma di un locale reso praticabile. "Tale complessiva attività edilizia - indipendentemente dalla affermata modestia dell’eventuale innalzamento dell’imposta della copertura – ha determinato un mutamento della destinazione d’uso del precedente locale deposito che, come tale, è stato correttamente sanzionato dalla pubblica amministrazione con l’ingiunzione di ripristino dello stato dei luoghi". Ha agito bene, dunque l'amministrazione a comminare una sanzione, visto che risulta un abusivo mutamento della destinazione d'uso della soffitta, "a prescindere - dicono i giudici - che siffatta variazione sia o meno conseguente alla realizzazione di opere edilizie". Sono molti i casi in cui la giurisprudenza si è espressa su vicende simili, concordando sul fatto che il mutamento della destinazione d’uso “senza opere” "legittima l’esercizio del potere sanzionatorio di natura demolitoria tutte le volte in cui lo stesso generi, come nella specie, una variazione degli standard urbanistici previsti dal decreto ministeriale 2 aprile 1968". Nel caso analizzato, appare chiaro che la trasformazione di un mero “deposito” in locali abitabili e praticabili, sia pure intervenuta mediante l’installazione degli impianti necessari, "determini un evidente aggravio del carico urbanistico già valutato ed assentito dall’ente locale in sede di rilascio dei titoli edilizi originari". Per questo il ricorso è stato respinto.

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A cura di Redazione LavoriPubblici.it

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