L'acqua sotto i ponti: i Blues Brothers e le infrastrutture italiane

25/06/2015

Ho avuto un confronto con Gianluca Oreto della redazione sul viadotto Himera in Sicilia; si parlava di casi simili anche in altre zone d'Italia, così mi dice "Potresti scrivere un articolo su questo". Bene, vediamo cosa ne viene fuori.



Se tra i lettori c'è qualche amante del cinema, converrà con me che ogni film che si rispetti ha qualche scena girata su un ponte; che siano strallati, di pietra, tibetani, o apribili come quello muscoloso e irriverente dei fratelli Blues. I ponti uniscono, rafforzano le società, accorciano i sogni; a livello d'immaginario collettivo è probabilmente l'opera che più rappresenta la presunzione dell'uomo sulla natura, ma anche il suo intelletto.

Sono quindi l'infrastruttura principe, intendendo con questa parola il capitale fisso sociale (Enciclopedia "Treccani") che costituisce la base dello sviluppo economico e sociale di un paese. Ma nel nostro di paese, nella nostra Italia, qual è stata la nascita e lo sviluppo di queste opere così importanti, che tutti quotidianamente utilizziamo?

Partiamo da un presupposto: il funzionamento e la gestione di ponti, strade e ferrovie storicamente ha rispecchiato il successo economico di una società, il grado di modernizzazione raggiunto. Per una nazione come l'italia, lo sviluppo delle infrastrutture è andato a braccetto con la storia del paese: conoscenza e (tentativo di) superamento di vincoli territoriali, competenze nella pubblica amministrazione, qualità progettuali, giusta valutazione degli aspetti economici, promesse politiche...

Quando nacque il nostro stato, nel 1861, la sfida fu cercare di unire tutto un sistema di reti create, gestite e funzionanti in maniera autonoma l'una dall'altra, senza un obiettivo comune. Tra i primi progetti ci furono quindi alcune grandi direttrici stradali, con l'obiettivo di avvicinare Nord e Sud, ancora troppo distanti; rimasero però solo progetti perchè il lavoro grosso fu nello sviluppo ferroviario, costruendo nei 35 anni successivi all'unione circa 8 mila chilometri di nuove reti, oltre alle 2370 esistenti. Agli inizi del Novecento la mobilità cominciò a essere vista sotto l'ottica del trasporto su gomma che, sempre più economico e maggiormente flessibile, andava a sopperire alla mancanza di capillarità del sistema ferroviario. Le autostrade diventarono il simbolo dello sviluppo italiano che celebrava la ricchezza dei suoi cittadini e l'apparato tecnologico si è subito dimostrato preparato e all'avanguardia, arrivando anche a esportare in tutto il mondo le proprie conoscenze.

Le due guerre mondiali costituirono comunque un punto di fermo per entrambe le realtà; alla fine della seconda, il 40% della viabilità e quasi il 35% dei ponti risultava danneggiato (senza distinzione tra ferrovie e strade).

A partire dal 1945, oltre alla ricostruzione di quanto danneggiato, le scelte furono chiare: lo sviluppo doveva puntare sul trasporto su gomma. Da qui comincia la nostra storia. Nel 1948 nacque l'ANAS come la conosciamo: accentramento di autonomia, concessione ad enti (pubblici o privati) di infrastrutture, aggiudicazione dei lavori mediante licitazione privata. Di pari passo, l'automobile divenne un bene popolare e il benessere cresceva; la gente aveva voglia di muoversi. I nuovi ponti crescevano velocemente, grazie al cemento armato (fino ad allora i ponti erano per la maggior parte ad arcate in mattoni o pietra, raramente in acciaio o c.a.) e grazie agli affidamenti diretti dei lavori. In quegli anni cruciali per lo sviluppo, non solo infrastrutturale, del nostro paese, la gestione dei lavori pubblici rimase in mano a pochissime persone; ma il criterio della licitazione privata, nonostante fosse sospetto, era molto veloce e andava incontro ai desideri della classe politica. Una piccola nota: questa gestione fu mantenuta fino a metà degli anni settanta; il nostro patrimonio autostradale, se da una parte ci ha portato ai più alti livelli europei, dall'altro è costato molto di più di qualsiasi previsione (e molto di più di qualsiasi altra "viabilità" europea...).



E' il caso di dirlo; dal dopoguerra ne è passata di acqua sotto i ponti. Ma i ponti sono rimasti quelli. Adesso abbiamo in mano un patrimonio di infrastrutture di cemento armato, costruite quando il cemento armato non era quello di adesso, quando non si parlava di durabilità, quando non ci si preoccupava del dopo. Molti ponti sono bombe ad orologeria, e le amministrazioni non hanno soldi neppure per le verifiche di sicurezza.

Il viadotto Himera in Sicilia non è un caso diverso dagli altri; uno dei suoi piloni è stato investito da un movimento franoso (a detta di molti "sempre presente") che ha impedito di continuare a utilizzarlo. La stessa cosa può succedere ad una campata che diventa inagibile per troppa corrosione, ad un pulvino che deve essere rinforzato perchè poco armato, ad un pilone che viene scalzato alla base per troppa erosione.

La soluzione, in questo periodo storico, non è semplice. Purtroppo si interviene in emergenza: quando un ponte diventa inagibile ci si mette all'opera, si batte cassa al politico di turno e si mette una pezza; sperando che nessuno si faccia male e sperando che il prossimo problema si presenti fuori dal territorio comunale, magari sul ponte successivo distante qualche chilometro.

Comunque, caro Gianluca, non per fare il campanilista ma a Rimini abbiamo questo ponticello; è stato edificato da Tiberio nel 13 d.C. ed ha appena compiuto 2000 anni; attualmente ci passano le auto ed è ancora una delle arterie cruciali per il traffico della nostra cittadina. L'ingegnere che lo costruì aveva aperto le NTC2008 al capitolo 2.4, preso come vita nominale VN 100 e classe d'uso 3. Perfetto.

Il problema è che tutti i ponti che lo circondano, edificati nel dopoguerra, hanno una "scadenza" molto più breve; e quando sono stati realizzati nessuno parlava ancora di sollecitazioni sismiche...
 

A cura dell'Ing. Andrea Barocci
     


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