Equo compenso: dubbi europei sulla Legge italiana

di Alessandro Boso - 09/02/2024

Il principio dell’equo compenso per le prestazioni d’opera intellettuale è affermato sia nel nuovo Codice degli appalti (d.lgs. 36/2023), sia dalla recente legge n. 49/2023. Tale principio necessariamente incide sulla determinazione del compenso del professionista, ma è lecito non consentire deroghe ai parametri fissati dai Decreti Ministeriali?

Una recente pronuncia della Corte di Giustizia Europea (Causa C-438/22) ripropone tale dubbio.

L’equo compenso nel nostro ordinamento

Il diritto del professionista intellettuale ad un compenso equo per l’attività svolta, è un principio presente e regolamentato da tempo nel nostro ordinamento. L'art. 2230 comma 2 del Codice civile, infatti, prevede che: "In ogni caso la misura del compenso deve essere adeguata all'importanza dell'opera e al decoro della professione".

Peraltro, l’equo compenso è un principio che trova la sua matrice costituzionale nell’art. 36 Cost., il quale sancisce che “il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro”.

Un tempo, per le professioni regolamentate, erano previsti parametri fissi e predeterminati dal legislatore; successivamente - con il d.l. 4 luglio 2006, n. 223, convertito dalla legge 4 agosto 2006, n. 248 (c.d. decreto Bersani) e con il d.l. 24 gennaio 2012, n. 1, convertito dalla legge 24 marzo 2012, n. 27 (c.d. decreto Monti) - in nome della concorrenza, il regime tariffario è stato soppresso ed è stata affermata la natura pattizia del compenso professionale.

L’art. 9 della legge n. 27/2012 (ad oggi in vigore) rinvia a dei decreti ministeriali, unicamente:

  • la determinazione dei parametri da utilizzarsi per il caso di liquidazione del compenso in sede giurisdizionale;
  • i corrispettivi da porre a base di gara, nelle procedure di affidamento di contratti pubblici dei servizi relativi all'architettura e all'ingegneria (ora contenuti nell’Allegato I.13 del Codice dei contratti pubblici).

In tale contesto è intervenuta la recente Legge n. 49 del 21 aprile 2023 sull’”equo compenso”, volta a tutelare la posizione contrattuale (dunque privatistica) del professionista, quale lavoratore e parte debole, esposta ad una crisi dovuta a mutamenti radicali del sistema sociale ed economico.

L’art. 1 della citata Legge precisa che per equo compenso si intende la corresponsione di un compenso:

  • proporzionato alla quantità e alla qualità del lavoro svolto, al contenuto e alle caratteristiche della prestazione professionale;
  • conforme ai compensi previsti dai decreti ministeriali applicabili alle diverse professioni ordinistiche.

L’articolo 3, comma 1, introduce inoltre uno speciale regime di nullità delle clausole che prevedano un compenso inferiore agli importi stabiliti dai parametri per la liquidazione dei compensi dei professionisti iscritti agli ordini o ai collegi professionali, fissati con decreto ministeriale, o ai parametri determinati con decreto del Ministro della giustizia.

Ciò ha determinato la necessità di chiarire se attraverso la legge n. 49 del 2023 il legislatore abbia reintrodotto dei parametri professionali minimi e inderogabili, quantomeno nel rapporto tra il professionista e i committenti con posizione preminente indicati all’art. 2: imprese bancarie e assicurative, società di rilevante dimensione, enti pubblici, ecc.

Inoltre, ci si chiede quale possa essere il ribasso massimo che conduce a ritenere il compenso equo nell’ambito delle procedure di affidamento dei servizi intellettuali, posto che detta Legge è applicabile anche alle prestazioni rese dai professionisti in favore della pubblica amministrazione e delle società disciplinate dal testo unico in materia di società a partecipazione pubblica, di cui al decreto legislativo 19 agosto 2016, n. 175.

Le soluzioni individuate dall’Autorità

Come le nuove disposizioni sull’equo compenso possano impattare sui criteri di valutazione delle offerte, è stato chiarito dall’ANAC nella bozza di Bando tipo n. 2/2023, concernente una procedura aperta per l’affidamento di servizi di architettura e ingegneria.

L’ANAC sul punto ha individuato tre soluzioni interpretative:

  • opzione 1: Necessità di svolgere gare a prezzo fisso, sulla base della inderogabilità del compenso individuato dalle tabelle ministeriali;
  • opzione 2: Possibile ribasso limitato alle spese generali, quale parte di costo che esula dal compenso professionale;
  • opzione 3: Non applicabilità della disciplina dell’equo compenso alle procedure di evidenza pubblica, in quanto in contrasto con il principio di concorrenzialità sancito a livello di normativa comunitaria.

La natura delle tariffe professionali quali “parametro vincolante e inderogabile” per la determinazione dei corrispettivi negli appalti di servizi di ingegneria e architettura, nonché la necessità di costruire le relative gare "a prezzo fisso", con competizione limitata alla componente qualitativa, risulta affermata dall’ANAC nella delibera n. 343 del 20 luglio 2023.

Tuttavia, nella bozza di bando tipo n. 2/2023, viene invece seguita la seconda opzione, che è stata suggerita dal Dipartimento centro studi del Consiglio Nazionale degli Ingegneri, che con parere n. 611 del 27 luglio 2023 ha precisato che “il compenso del professionista non può essere soggetto a ribasso e il criterio dell’offerta più vantaggiosa dovrà essere applicato sulla base dei soli criteri qualitativi e a prezzo fisso. E’ ammissibile il ribasso della componente del corrispettivo relativa alla voce “spese”, a patto però che questo non intacchi l’equità del compenso. A tal fine la Stazione Appaltante è obbligata a procedere alla verifica dei ribassi praticati sulle spese, onde accertare che essi non incidano sull’equità del compenso”.

La terza opzione esclude invece, in radice, l’applicazione della normativa sull’equo compenso ai casi in cui l’appalto non abbia ad oggetto prestazioni professionali tout court, caratterizzate dall'elemento personale, in cui il singolo professionista assicura lo svolgimento della relativa attività principalmente con il proprio lavoro autonomo, ma abbia ad oggetto attività professionali rese nell’ambito di un appalto di servizi, attraverso una articolata organizzazione di mezzi e risorse e con assunzione del relativo rischio imprenditoriale.

Tale conclusione pare ragionevole, ma alcuni si spingono oltre, ed affermano che la previsione di tariffe minime contrasterebbe con il diritto comunitario, che impone di tutelare la concorrenza.

I sostenitori di tale ultima tesi citano ora, a sostegno delle loro argomentazioni, la recente sentenza della Corte di Giustizia Europea resa nella Causa C-438/22.

I recenti approdi della Corte di Giustizia

La sentenza della Corte di Giustizia Europea caso C-438/22 del 25 gennaio 2024 pare affermare l’illegittimità dei regolamenti che fissano importi minimi inderogabili per i professionisti.

Nella sentenza si legge infatti che “L’articolo 101, paragrafo 1, TFUE , in combinato disposto con l’articolo 4, paragrafo 3, TUE, dev’essere interpretato nel senso che, nell’ipotesi in cui un giudice nazionale constati che un regolamento che fissa gli importi minimi degli onorari degli avvocati, reso obbligatorio da una normativa nazionale, è contrario a detto articolo 101, paragrafo 1, esso è tenuto a rifiutare di applicare tale normativa nazionale nei confronti della parte condannata a pagare le spese corrispondenti agli onorari d’avvocato, anche qualora tale parte non abbia sottoscritto alcun contratto di servizi d’avvocato e di onorari d’avvocato”.

Il caso di specie, rimesso alla Corte dal Tribunale distrettuale di Sofia (Bulgaria), riguardava una domanda di risarcimento nei confronti di un istituto assicuratore, a seguito del furto del veicolo; la domanda di risarcimento includeva gli onorari dell’avvocato, liquidati secondo un accordo concluso tra il ricorrente e il suo avvocato. L’istituto assicuratore convenuto aveva richiesto la riduzione degli onorari dovuti, in quanto eccessivi.

La questione controversa riguarda la possibilità, per il giudice bulgaro, di fissare i compensi dell’avvocato in misura inferiore alla soglia determinata da un regolamento adottato da un’organizzazione professionale di avvocati, richiamato dalla normativa interna.

Ci si chiede se una normativa nazionale, come quella bulgara relativa agli onorari degli avvocati, che, da un lato, non consente all’avvocato e al proprio cliente di pattuire un onorario d’importo inferiore al minimo stabilito dal regolamento adottato dall’associazione di imprese costituita da un’organizzazione di categoria dell’ordine forense e, dall’altro, non autorizza i giudici nazionali aditi a disporre la rifusione degli onorari d’importo inferiore a tale minimo, sia idonea a restringere il gioco della concorrenza nel mercato interno ai sensi dell’articolo 101, paragrafo 1, TFUE.

Si noti che l’art. 101 TFUE prevede che “Sono incompatibili con il mercato interno e vietati tutti gli accordi tra imprese, tutte le decisioni di associazioni di imprese e tutte le pratiche concordate che possano pregiudicare il commercio tra Stati membri e che abbiano per oggetto o per effetto di impedire, restringere o falsare il gioco della concorrenza all'interno del mercato interno”.

Tale norma viene in rilievo in questa pronuncia in quanto  le tariffe in questione erano state determinate dal Consiglio superiore dell’ordine forense, i cui membri sono tutti avvocati eletti dai loro colleghi. Tale organo agisce, in assenza di qualsiasi controllo da parte delle autorità pubbliche e di disposizioni idonee a garantire che esso si comporti quale emanazione della pubblica autorità, come un’associazione di imprese, ai sensi dell’articolo 101 TFUE, quando adotta i regolamenti diretti alla fissazione degli importi minimi degli onorari forensi (sentenza del 23 novembre 2017, CHEZ Elektro Bulgaria e FrontEx International, C‑427/16 e C‑428/16, EU:C:2017:890, punti da 47 a 49).

In sostanza viene ritenuta illegittima la determinazione orizzontale dei prezzi, in quanto determina un grado sufficiente di dannosità nei confronti della concorrenza, a prescindere dal livello a cui è fissato il prezzo minimo.

Ebbene in Italia le tariffe sono adottate con decreto ministeriale e di conseguenza non paiono estensibili le stesse conclusioni di cui alla citata sentenza.

Al contrario, devono richiamarsi precedenti che affermano la legittimità delle tariffe minime se e nella misura in cui esse rispondano a motivi di interesse pubblico quali la tutela dei consumatori, la qualità dei servizi e la trasparenza dei prezzi.

Sul punto vedasi la sentenza della Corte di Giustizia dell'Unione Europea (sezione IV), 4 luglio 2019, caso C- 377/17, secondo la quale le tariffe minime e massime in materia di prestazioni di progettazione fornite da architetti e ingegneri, rientrano nell’ambito di applicazione dell’articolo 15, paragrafo 2, lettera g), della direttiva 2006/123 se soddisfano le seguenti condizioni: non essere discriminatorie, essere necessarie e proporzionate alla realizzazione di un motivo imperativo di interesse generale.



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