L'Italia, come tutti sappiamo, è un paese sismicamente molto
"pericoloso". Nel territorio italiano sono state ricostruite
dall'INGV (Istituto Nazionale Geofisica e Vulcanologia) ben 36
diverse zone sismogenetiche. Sul nostro territorio vi è diffusa
presenza di faglie attive da cui periodicamente si originano sismi
a cinematica sia compressiva, che distensiva che trascorrente.
Da esse, statisticamente, si originano infatti circa 2000 terremoti
l'anno aventi magnitudo superiore ai 2.5 gradi Richter di cui
almeno un evento all'anno, sempre statisticamente, è sopra la
soglia del danno significativo, compreso quindi tra 5 e 6 gradi ed
uno ogni 10-20 anni è gravissimo, tra 6 e 7 gradi Richter. La
faccenda dunque è assolutamente seria.
La pericolosità sismica italiana è molto forte soprattutto nei
territori appenninici ma anche nelle altre zone, ed è causata
essenzialmente dalla particolare posizione geostrutturale della
nostra penisola, collocata in pieno nelle zone orogenetiche attuali
tra le superplacche africana ed euroasiatica; dalla sua relativa
"giovinezza" geologica e morfologica; dalla sua diffusa "fragilità"
litologica per la grande presenza, in appennino, di sedimenti
terrigeni spesso caoticizzati dalla loro travagliata genesi ed in
pianura da sedimenti spesso soffici e in falda.
Tutto ciò costituisce un brodo di coltura micidiale da cui derivano
diffuse, intense e difformi amplificazioni locali dell'input
sismico, oltre che fenomeni di instabilità locale durante le fasi
cosismiche, quali frane e liquefazioni. Osserviamo abitualmente
infatti, in occasione dei sismi intensi, forti differenze negli
effetti di danno sull'edificato, tra zona e zona di uno stesso
agglomerato urbano, pur con edifici comparabili dal punto di vista
delle strutture portanti. Gli studi e le applicazioni geologiche
finalizzate alla definizione puntuale delle pericolosità sismica di
sito è quindi uno dei settori di ricerca da incentivare al
massimo.
Se a questo aggiungiamo l'alta vulnerabilità sismica da cui è
caratterizzata una significativa percentuale dell'edificato
esistente in Italia, sia pubblico che privato, risulta che ancora
oggi ogni evento sismico di una certa intensità determina nuovi
lutti e danni enormi, anche quando trattasi di eventi che, per la
loro magnitudo, dovrebbero determinare effetti molto più
ridotti.
L'Aquila 2009 e l'Emilia 2012 hanno purtroppo, ultime in ordine di
tempo, ancora una volta confermato tutto ciò.
Ma va detto che tale vulnerabilità è soprattutto frutto di
politiche inefficaci, che hanno preferito investire enormi risorse
in un più comodo intervento post-disastro a quello poco costoso, ma
difficile e poco pagante dal punto di vista del consenso
elettorale, dello studio e dell'analisi geosismica preventiva e del
coerente governo dello sviluppo edilizio/urbanistico dei
territori.
Ciò ha determinato, dal solo 1968 ad oggi, circa 5000 vittime e
500.000 senza tetto (Belice '68, Friuli '76, Irpinia '80,
Marche-Umbria '97, Molise-Puglia 2002, Aquila 2009, Emilia 2012),
con una connessa spesa pubblica per l'emergenza e la post-emergenza
pari a oltre 150 miliardi di euro in soli 40 anni. Di contro, in
prevenzione sismica, lo stato ha inteso investire "solo" circa 300
milioni dall'86 al 2003, e 750 milioni dal 2003 al 2010,
soprattutto per adeguare edifici pubblici.
Solo dopo il sisma dell'Aquila, con la legge 77/2009 vi è stata una
prima inversione di tendenza, con previsione di un fondo di circa
960 milioni da investire fino al 2016 che in parte, seppur modesta,
è destinato a valide ed innovative azioni di prevenzione, perché si
investe anche in studi di Microzonazione Sismica (MS) e
dell'analisi della Condizione Limite per l'Emergenza (CLE). La MS,
svolta applicando indirizzi e criteri unitari sull'intero
territorio nazionale, è finalizzata a conoscere con il dettaglio
della scala urbana la pericolosità sismica locale e la CLE è
finalizzata ad analizzare il sistema di gestione dell'emergenza. Il
tutto in coordinazione tra Dipartimento Protezione Civile e
Regioni.
Dal 2011 ad oggi, con le prime tre annualità di tale fondo, sono
state programmate Microzonazioni Sismiche, soprattutto di primo
livello, per 1660 comuni, di cui circa 500 già eseguite e validate.
È chiaro che questo è solo un inizio, considerando i circa 4900
comuni italiani classificati a più alta sismicità (Zone sismiche
1-2-3) e tenendo presente che sarebbe necessario giungere alla
microzonazione di 2 e 3 livello di tutti i suddetti comuni
classificati sismici. Ed infatti dei circa 51 milioni di italiani
che vivono in tali zone sismiche - di cui 26 milioni in zone ad
altissimo rischio (Zone 1 e 2) e altri 25 milioni in zone a medio
rischio (Zona 3) - attualmente solo il 5% circa vive in zone già
microzonate.
Entrando più nel merito, le prime analisi statistiche sui risultati
delle microzonazioni eseguite confermano puntualmente che la quasi
totalità dei territori italiani, per loro costituzione geologica e
morfologica, è realmente predisposta a dare, in occasione dei sismi
intensi, amplificazioni sismiche locali e diffusi fenomeni di
instabilità locale, quali frane e liquefazioni.
Infatti su 761 Kmq di località abitate su cui si sono svolti gli
studi di MS, solo il 5% circa potenzialmente non presenta fenomeni
di amplificazione locale, mentre l'83% presenta potenziali
amplificazioni più o meno forti ed il restante 12% amplificazioni e
contemporaneamente fenomeni di instabilità cosismiche, quali,
appunto, frane e/o liquefazioni e cedimenti.
Oggi dunque iniziamo ad aver finalmente su larga scala, quella
nazionale, e con buona sicurezza statistica, la prova provata di
quanto i geologi predicano da tempo, ovvero che la grande
vulnerabilità sismica italiana deriva solo in parte da carenze
costruttive (edificato vecchio e sismicamente debole, a volte
frutto di abusivismo e/o pressappochismo costruttivo). Essa infatti
deriva anche da progettazioni basate su norme sismiche che, nel
tempo, hanno sempre fatto riferimento a classificazioni sismiche di
arcaica concezione, in quanto sempre fondate su macrozonazioni a
volte già vecchie e inadeguate al momento della loro emanazione per
un determinato territorio, e che non hanno mai ben considerato
l'approccio locale, delle condizioni geologico-sismiche del singolo
territorio e del singolo sito su cui si progettava l'opera.
Anche le attuali norme sismiche, per quanto cerchino, nelle
progettazioni, di "calmierare" le incertezze della classificazione
sismica con dei correttivi più o meno empirici associati ad
opinabili "categorie di sottosuolo", sono forse da ripensare.
È forse, dunque, arrivato il momento di iniziare a pensare a nuove
forme, più moderne, analitiche e "locali", di classificazione
sismica dei territori italiani.
È arrivato il momento di portare avanti una nuova e moderna
prevenzione con lo sviluppo ed il successivo recepimento - nella
pianificazione urbanistica, nei piani comunali di protezione
civile, nei piani di ricostruzione per le zone colpite dai sismi,
nelle norme sismiche - di microzonazioni sismiche sempre più di
dettaglio e quindi di livello elevato, e di analisi di risposta
sismica locale per i singoli interventi. Per questo occorrono
grande consapevolezza, perseveranza, risorse economiche adeguate e
molta più geologia sismica locale.
Su tutto ciò il Consiglio Nazionale Geologi cercherà di fare il
punto e stimolare le più opportune riflessioni nel Convegno
Nazionale sulla salvaguardia dal rischio sismico che si terrà a San
Benedetto del Tronto l' 11/12 settembre 2014.
Giovanni Calcagnì - Consigliere del Consiglio Nazionale dei
Geologi
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