Come sempre accade in questo strano Paese, si parla per giorni,
mesi, sempre dello stesso tema, finché non se ne troverà un altro,
più attraente, sul quale concentrare l'attenzione politica e
mediatica. Come sempre accade in questo strano Paese,
dopo
ogni catastrofe, dopo ogni perdita ci si rimbocca le maniche
giurando che quello che finora è accaduto non accadrà più.
Da qualche mese un tema molto dibattuto è quello del
dissesto idrogeologico.
Lo vado sentendo dai tempi dell'Università; da quando, alla fine
degli anni '80, venne promulgata la famosa
legge 18 maggio
1989, n. 183 "
Norme per il riassetto organizzativo e
funzionale della difesa del suolo", una legge all'epoca
moderna che integrava, per la prima volta, i concetti di suolo,
acqua e pianificazione, una rivoluzione culturale per l'Italia dei
fiumi, delle fiumare, dei calanchi e delle formazioni
strutturalmente complesse.
Quella legge arrivava dopo un periodo di gestazione politica durato
23 anni, più o meno lo stesso tempo intercorrente tra la
catastrofe del Vajont del 1963 e la drammatica
sequenza di
eventi della Valtellina del 1987. In
quei 23 anni, mentre i Governi si susseguivano e discutevano
sull'opportunità, o meno, di promulgare una legge sulla difesa del
suolo, decine di persone perdevano la vita e tutti i loro beni
nelle
catastrofi di Genova (1970),
Val di
Stava (1985),
Valtellina (1987), solo per
richiamare quelle più famose per le cronache e la storia.
E quando quella legge entrò in vigore, con l'istituzione delle
Autorità di Bacino Nazionali, nessuno sapeva se
avrebbe rappresentato davvero lo strumento normativo più adeguato
per
limitare morte e distruzione in un Paese geologicamente
giovane, in cui tutte le pericolosità naturali erano
presenti.
Si dovevano aspettare altri 9 anni, tra il fango e la disperazione
della gente di Sarno e 15, per rendersi conto che forse quella
legge, da sola, non era sufficiente per bloccare il degrado morale
e l'incoscienza di professionisti mediocri e di politici miopi.
Oltre alla legge occorreva una svolta culturale, decisa, che
rimettesse in chiaro, una volta per tutte, che con i corsi d'acqua
e con i versanti non si scherza.
L'uomo può e deve
progettare, è nella sua essenza proiettarsi nel futuro
attraverso la materializzazione del suo pensiero; eppure
la
progettazione non è un semplice esercizio analitico: è una
vera e propria sfida, giocata sul delicato equilibrio tra opera
dell'uomo e ambiente naturale. E
se l'ambiente cambia nel
tempo, l'opera dell'uomo deve saperne anticipare le mosse per
essere sempre affidabile e funzionale fino al termine della sua
vita.
Ma
la progettazione senza progettualità non può
esistere e la progettualità è un processo culturale che
trova nel tempo la sua ragion d'essere. Ed
in questo Paese,
ormai da troppi anni, manca la vera progettualità che è stata
mortificata dalle logiche del mercato e del potere,
piuttosto che valorizzata dal confronto costruttivo alla ricerca di
un modello di sviluppo più adeguato.
Esistono i progetti, quelli importanti e ben fatti, basati su una
conoscenza profonda del contesto naturale in cui si calano; i
progetti redatti da professionisti competenti che prima di
progettare hanno educato la propria progettualità con coraggio,
impegno, competenza e continuità. Ma esistono anche tanti progetti
scadenti; cumuli di tavole e calcoli prodotti nell'arco di qualche
giorno per illudersi di aver agito per il bene di quel territorio o
di quella comunità.
E invece questo tipo di progettualità non fa bene al nostro Paese;
è esattamente la progettualità scadente che ha generato morte e
disperazione in tanta gente che, ignara, ha creduto che ad ogni
opera potesse essere associato il senso del benessere e dello
sviluppo.
L'Italia ha bisogno di certezze e di una grande
progettualità. Progettualità che vada oltre l'esercizio
tecnico ma che individua l'orizzonte raggiungibile a costo di
sacrifici sostenibili.
Il tema del
dissesto idrogeologico solo in questo
senso può diventare un'opportunità; solo in questo modo
l'
Unità di Missione pensata e realizzata dal
Governo Renzi può rappresentare una garanzia per un
territorio più sicuro a fronte di risorse economiche limitate ma
oculatamente gestite.
Ma mentre i tecnici dell'Unità di Missione cercano strade e
soluzioni operative per affrontare l'enorme mole di lavoro che si
troveranno a gestire,
nei piccoli studi tecnici di
provincia, ma anche nelle megastrutture metropolitane, si producono
progetti in serie, con tempi ristrettissimi e compensi spesso
inesistenti; ciò porta inevitabilmente a produrre un parco
progetti, troppo spesso di scarsa qualità, che non è frutto di una
progettualità raffinata che parte dall'analisi dei fabbisogni del
territorio, ma solo dell'ossessiva esigenza di acquisire
finanziamenti e realizzare opere.
In questo
le professioni, e quelle tecniche in particolare,
stanno perdendo l'ennesima occasione per riacquistare una
credibilità che è stata dilapidata nell'arco di un
trentennio, da quando, cioè, da elite culturale di un
Paese alla ricerca di un'identità forte diventava soggetto
commerciale che, alla stregua di altri, cercava la propria
sopravvivenza nella concorrenza e non nella credibilità.
I professionisti del nuovo millennio, probabilmente, non hanno
colto fino in fondo il reale pericolo che sta correndo la loro
credibilità rispetto ad un mercato che chiede maggiori performance
a fronte di minori risorse investite. Ne è dimostrazione la guerra
senza quartiere che quotidianamente si instaura tra i
professionisti alla ricerca del cliente di turno che possa
consentire di sbarcare il lunario.
Eppure in questa condizione non si è finiti per caso; è l'effetto
di una crisi di identità che parte da molto lontano, da quando
tutti pensavano di poter fare tutto, senza misurare effettivamente
i propri limiti e prendere coscienza delle proprie incapacità.
Opere ciclopiche o fuori contesto pensate e progettate da
tecnici "a mezzo servizio";
inconsapevolezza assoluta riguardo ai contesti naturali ed alle
relative criticità in cui le opere stesse venivano calate. Queste
sono solo alcune delle gravi ingenuità commesse dalle professioni
tecniche negli ultimi trent'anni.
L'ultima, in ordine di tempo, quella commessa in sede di
approvazione della bozza delle
Norme Tecniche per le
Costruzioni, quando gli unici rappresentanti dei
Progettisti, ovvero i Consigli Nazionali che li rappresentano, non
hanno agito come blocco unico ma come singoli elementi di un
sistema ordinistico ormai scricchiolante e fuori tempo.
Le vecchie contrapposizioni culturali, più di principio che di
merito ed ormai anche un po' ingrigite dal tempo, hanno avuto,
ancora una volta, un effetto dilaniante all'interno delle
professioni, ponendo su piani diversi geologi e
ingegneri/architetti come se non fossero figli della stessa madre:
la
scienza.
Ecco, forse la vera ragione di questo
profondo decadimento
economico, culturale e morale dell'Italia è da ricercare
nella
mancanza di un confronto costruttivo, anche
vivace ma corretto nei termini e nelle modalità, che aveva
caratterizzato gli anni dello sviluppo e della crescita, che aveva
dato la sensazione a ciascuno, insieme agli altri, di essere parte
attiva di un processo.
Ormai ognuno pensa di poter fare bene da solo e questo è l'errore
più grave che si possa commettere in un Paese che si definisce
civile, democratico ed evoluto. Per fare bene, e per fare il bene
della comunità, è necessario il contributo di tutti che, con la
propria specificità, sanno rendere organico e completo un
processo.
Il tempo a disposizione per fare bene è ormai
ridottissimo e l'emergenza
dissesto
idrogeologico, quest'anno più che in quelli scorsi, non
lascia grossi margini di manovra.
Si abbandonino le
posizioni preconcette e si operi, con coscienza, per il bene del
nostro territorio.
di Pierfederico De Pari - Segretario
Consiglio Nazionale Geologi
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