Una politica industriale sul ciclo dei rifiuti è possibile

04/02/2015

Che l'Italia sia un Paese in cui la coscienza ambientale è ben lontana dall'essere compiuta è un fatto risaputo, ma quando ogni anno vengono presentati i dati sullo stato dell'ambiente la situazione si rivela purtroppo peggiore della percezione: qualità dell'aria, qualità delle acque, qualità del mare, inquinamento acustico, consumo di suolo mostrano numeri preoccupanti.

La contaminazione dei terreni derivante da attività industriali, dalla gestione dei rifiuti, dalle perdite da serbatoi e dalle linee di trasporto degli idrocarburi è uno dei principali fattori di pressione ambientale. Sono 39 in Italia i Siti di Interesse Nazionale (SIN), aree contaminate nelle quali è stata accertata un'alterazione puntuale della qualità ambientale da parte di un qualsiasi agente inquinante, mentre ben 1135 sono gli stabilimenti a rischio di incidente rilevante, concentrati per un quarto nelle regioni di maggiore industrializzazione.

Tra i maggiori responsabili dei fattori di pressione antropica sull'ambiente ci sono i rifiuti. Non consola affatto che il loro trend di produzione negli ultimi anni sia in calo, perché questo non è legato ad un deciso cambio di politiche, bensì agli effetti della crisi economica: l'ultimo Rapporto ISPRA indica che nel 2013 l'Italia ha prodotto quasi 400 mila tonnellate di rifiuti urbani in meno rispetto al 2012 (-1,3%) e quasi tre milioni di tonnellate in meno rispetto al 2010 (-8,9%), coerentemente al trend degli indicatori socio-economici, che tuttavia evidenziano percentuali di contrazione delle spese delle famiglie del 2,5% a fronte di una riduzione della produzione di rifiuti che si è attestata invece all'1,3%.

Resta irrisolto, fatto grave e spesso sottovalutato, il problema dello smaltimento in discarica quale forma di gestione diffusa e persino unica, soprattutto in quelle regioni dove le piattaforme impiantistiche sono inadeguate, se non addirittura assenti, come nel caso della Sicilia, dove i rifiuti urbani smaltiti in discarica rappresentano il 93% del totale dei rifiuti prodotti, e della Calabria, dove rappresentano il 71%.

Lo smaltimento in discarica assume ancora oggi dimensioni rilevanti, se solo si pensa che vengono stoccati sui terreni qualcosa come circa 11 milioni di tonnellate di rifiuti (37%, contro il 34% in Europa), a grave danno dell'ambiente e dell' economia.

Il riciclaggio delle frazioni provenienti dalla raccolta differenziata o dagli impianti di trattamento meccanico biologico (TMB) dei rifiuti urbani raggiunge in Italia il 39% della produzione, variando l'utilizzo dal recupero di materia organica (compostaggio), alla ricopertura delle discariche (previo pretrattamento), alla produzione di CSS, alla biostabilizzazione. Una percentuale rilevante, pari al 18% dei rifiuti urbani prodotti, viene inviato ai termovalorizzatori, con un trend in deciso aumento negli ultimi tempi.

Nelle Regioni dove esiste un ciclo integrato dei rifiuti, in virtù di piattaforme impiantistiche sviluppate, il ricorso alla discarica si riduce in maniera drastica e significativa, come in Lombardia dove esso è limitato al solo 6% del totale dei rifiuti prodotti, in Friuli Venezia Giulia al 7% ed in Veneto al 9%. Ne consegue un utilizzo della raccolta differenziata anch'esso significativo, con percentuali sopra il 50% e persino sopra il 60%. In Sicilia e in Calabria, molto indietro nell'intero ciclo, le percentuali si abbassano al 13,4% ed al 14,7%.

Il problema dunque si pone in tutta la sua gravità, sia in termini ambientali, sia in termini di sostenibilità economica. Per non parlare poi degli aspetti legati al rispetto della legalità e alla lotta alle ecomafie, in un contesto in cui, seppure si registri un calo dei reati ambientali accertati ed una contrazione del business, sceso di circa 1,5 miliardi di euro, le entrate illegali nel ciclo del cemento e dei rifiuti, nell'agroalimentare, nel racket degli animali e nell'archeomafia si attesta, secondo i dati di Legambiente, alla considerevole cifra di 9 miliardi annui.

Resta da capire quale politica il Governo Renzi vorrà intraprendere per cambiare le deboli politiche sinora praticate nella gestione dei rifiuti. E' sin troppo evidente che quelle sinora attuate si sono rivelate inefficienti sotto tutti i profili. Ed è altrettanto evidente che le politiche riguardanti la questione del ciclo dei rifiuti rappresenteranno la cartina al tornasole del modello di sviluppo che si vorrà dare al Paese. Si è tanto parlato del petrolio e delle scelte del Governo di incrementare le ricerche petrolifere, ma si è poco discusso di rifiuti e di riciclo, attraverso cui può e deve passare una vera e propria scelta di politica industriale per il nostro paese.

Bene il monitoraggio dell'adozione o della revisione dei piani regionali di gestione dei rifiuti, per il quale sono state avviate le procedure di valutazione ambientale strategica finalizzate all'approvazione dei nuovi piani di gestione; molto bene avere adottato il Programma nazionale di prevenzione dei rifiuti. Ma occorre uno sforzo maggiore, l'adozione di una vera politica di tipo industriale che, oltre a fare chiarezza sul modello di sviluppo, sappia correggere le inefficienze del sistema e lo sappia rendere competitivo sotto il profilo economico.

Aumentare in primo luogo la raccolta differenziata, a partire dalla frazione organica, che nella gestione dei rifiuti urbani rappresenta il primo componente, costituendo circa il 24% della raccolta differenziata. Non supportata da alcun contributo ambientale, la frazione organica è la seconda voce di costo (dopo il tal quale) nella gestione dei rifiuti urbani. Nel compostaggio la frazione organica viene trasformata in un ammendante (compost) utilizzabile in agricoltura e nella florivivaistica, migliorando persino la gestione dei rifiuti in discarica. La distribuzione degli impianti di compostaggio in Italia mostra una notevole differenza tra il Nord e il Centro-Sud, dove c'è quindi ampio spazio sia per lo sviluppo della raccolta separata della frazione organica dei rifiuti, sia per gli investimenti in nuovi impianti di trattamento.

Da qualche tempo oltre che al compostaggio si ricorre alla digestione anaerobica con conseguente produzione di biogas, ma si pensi anche al possibile sviluppo della frazione organica in termini di biomasse, che l'International Energy Agency ha definito uno "sleeping giant", ovvero un "gigante dormiente", facendo riferimento alle grandi potenzialità che il settore ricopre nello sviluppo delle energie rinnovabili.

Ma per compostaggio e digestione anaerobica il nodo cruciale sono i costi, che rendono il relativo mercato per nulla competitivo, giungendo persino a superare i costi dello smaltimento in discarica.
Una politica industriale dei rifiuti deve imporsi l'obiettivo di aumentare la raccolta differenziata ed allo stesso tempo quello di allineare i costi dei trattamenti a quelli degli altri paesi europei, conferendo alla filiera quell'efficienza,senza la quale si generano costi aggiuntivi che rendono il sistema non competitivo.

Una politica che deve comportare anche il riutilizzo di beni e la preparazione, economica e culturale, per il riutilizzo di rifiuti, che sono temi centrali delle politiche comunitarie in materia di rifiuti e della strategia europea per una gestione efficiente delle risorse. Riusare significa usare nuovamente un oggetto o un materiale, per il proprio scopo originale o per scopi simili, senza alterarne in maniera significativa la sua forma fisica.

La normativa vigente definisce riutilizzo qualsiasi operazione attraverso la quale prodotti o componenti che non sono rifiuti sono reimpiegati per la stessa finalità per la quale erano stati concepiti. Riusare non vuol dire riciclare, perché quest'ultimo termine indica la distruzione del prodotto e l'impiego del materiale per altri scopi, come la produzione di altri beni. Il riuso è dunque preferibile al riciclo perché comporta in genere un risparmio di energia e di risorse naturali. I rifiuti rappresentano invece materiali che non sono destinati all'uso e al riuso. Per questo il riuso coinvolge oggetti e materiali prima che diventino rifiuti ed è per questo che viene considerato dall'Unione europea una forma di prevenzione della produzione di rifiuti, secondo l'accezione del dover mettere in campo misure "prima che una sostanza, un materiale o un prodotto divenga un rifiuto".

Per l'Europa la prevenzione, che comprende il riutilizzo, ha la priorità su tutte le altre opzioni ed è seguita dalla preparazione al riutilizzo, la quale, a sua volta, ricopre una posizione privilegiata rispetto al riciclaggio e alle altre forme di recupero ma che, troppo spesso, viene trascurata.
Molti dei beni che vengono trasportati ai centri di raccolta comunali hanno una possibile seconda vita e dunque un valore economico stimato in diverse centinaia di migliaia di euro, fino a valori di milioni per le grandi aree metropolitane.
Occorre quindi diminuire significativamente il quantitativo di beni riusabili presenti nel flusso dei rifiuti urbani, che oggi vengono smaltiti in discarica o avviati al riciclo, per renderlo replicabile a livello europeo.

Si può partire investendo in centri di ricerca e riprogettazione degli oggetti industriali, perché se un oggetto "non può essere riusato, riciclato o compostato, allora non doveva essere prodotto".
Si può continuare su questa strada osservando criticamente ciò che diviene rifiuto e arriva in discarica, inviando dei segnali al mondo produttivo e alla pubblica amministrazione, affinché essi adottino provvedimenti consequenziali. Questo è già successo, come nel caso dei cotton fioc in plastica, posti fuori legge dopo averne rilevato quantità insostenibili nei depuratori.
Sono solo alcune delle azioni che potrebbero essere adottate in un'ottica integrata, che parta dalla cosiddetta green economy e che all'attenzione per l'ambiente associ efficienza, cura dei territori e occupazione, quest'ultima forse l'attrattiva più suadente per una economia in crisi e per un mercato privo di entusiasmo.

In questo lungo periodo di recessione economica, il mercato del riciclo e del riuso ha rappresentato uno dei settori economici a più alta intensità di lavoro e con uno dei più favorevoli rapporti tra costo dell'investimento e posti di lavoro creati. Negli ultimi dieci anni il numero di imprese del settore della valorizzazione del recupero è cresciuto del 39% e gli occupati sono aumentati da poco meno di 12.000 a più di 24.000.

Duccio Bianchi di Ambiente Italia scriveva di recente che "non si possono fare numeri grandiosi, certo, ma servire 10 milioni di abitanti in più con un efficiente (non assistenziale) sistema di raccolta differenziata domiciliare, significa creare 6.000 - 10.000 posti di lavoro diretti in più rispetto all'attuale,abbattere la spesa per smaltimenti a discarica, mettere a disposizione dell'industria manifatturiera un'ingente quantità di materie seconde, attivare una filiera del riciclo".

Una filiera che inizia con la raccolta differenziata, prosegue con gli impianti di valorizzazione e termina con quell'industria manufatturiera, che in Italia possiede interi settori basati principalmente su materie seconde che vengono importate. Intraprendere una politica industriale del ciclo dei rifiuti comporta minori importazioni di materie seconde e soprattutto una innovazione del settore verso forme di generazione di nuovi prodotti, conferendo all'industria verde italiana competitività e dignità nel contesto europeo.

Il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio lo ha sottolineato più volte e anche nei giorni scorsi: "nonostante le politiche industriali globali si stiano muovendo in direzioni spesso contrarie alla riduzione della CO2, l'Italia è in grado ed è matura culturalmente per un cambio radicale di passo". Insomma se siamo veramente consapevoli che un modello verde produce un benessere ed un ambiente migliore e salvaguarda il capitale naturale, non ci resta che attendere che il Governo, in maniera chiara e senza tentennamenti, lo adotti, attivando una politica basata sui saperi, sulla scienza e sulla conoscenza, in altre parole sulle più elevate capacità professionali e manageriali, oltre che tecniche e tecnologiche, di questo Paese. E' un dovere morale, ma anche un dovere economico.

di Gian Vito Graziano, Presidente del Consiglio Nazionale dei Geologi


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