Lettera aperta di un italiano libero professionista

La lettera aperta di un ingegnere libero professionista italiano ai tempi del Covid-19

di Pietro Francesco Nicolai - 16/04/2020

Sono, per mia natura, una persona che apprezza l’ambiente e la solitudine, stare in campagna e anche in casa, a leggere un libro, a fare dei lavori utili, a giocare con mia figlia e, qualche volta, anche a riposarmi. Quando non sono in casa, sono al lavoro, nei cantieri o nel mio studio, dalle otto del mattino alle otto di sera; nello studio la routine è sempre la stessa, almeno nella recente memoria: caffè al bar e subito davanti a un monitor per circa dieci ore, con la pausa pranzo e qualche “distrazione”, come rispondere al telefono, controllare una bozza di stampa, ricevere un collega, un cliente o qualche amico che viene per un saluto.

Svolgo, per mia deliberata scelta, l’attività di ingegnere libero professionista dagli inizi degli anni novanta. Entrai nel “mondo delle costruzioni” in un periodo di crisi; gli equilibri economici erano stati sconvolti dalle inchieste di “tangentopoli”, e molte aziende italiane avevano deciso di lasciare il Paese per ricercare altrove il motivo valido della loro esistenza.

Appena congedato dal servizio militare, il mondo delle professioni tecniche, nel nostro Paese, era poco appetibile, soprattutto per chi, come me, aveva la smaniosa aspirazione di “fare l’ingegnere libero professionista”. Negli anni precedenti, durante il corso di laurea, le prospettive di impiego erano molteplici; l’Università “La Sapienza” di Roma organizzava periodicamente il cosiddetto “Job Meeting”, una settimana di incontri tra l’università e il mondo del lavoro, tra studenti laureandi ed aziende, per delineare gli scenari futuri e prenotarsi per i rispettivi colloqui. Tutto sembrava così logico ed immediato, stimolante e gratificante, da farci stare tranquilli, da lì al prossimo futuro.

A qualche anno dalla laurea, dopo la pausa del servizio militare, il nostro mondo non era più quello di prima; le università si erano smarrite alla ricerca di modelli accademici originali, di ordinamenti anacronistici per le nuove realtà. Mi ricordo i consigli di alcuni professori – quelli che “contavano di più” – con un esplicito invito, rivolto a noi studenti, a migrare nei “nuovi ordinamenti” e, qualche anno dopo, nei “nuovissimi ordinamenti”; a detta loro, questi consigli venivano dispensati a tutela nel nostro futuro,  per non trovarci impreparati alle richieste dell’Europa Unita e per allargare gli orizzonti della futura professione di ingegnere.

Si è giunti così, alla fine degli anni novanta, al culmine di questa ricerca, con l’attuazione del corso di laurea cosiddetto “tre più due”, che prevede un triennio di studi per le esigenze richieste dal mercato del lavoro, e un successivo biennio per necessità specifiche e per un’eventuale carriera accademica.

Prima ancora, durante il mio corso di studi, sparì anche il Job Meeting nell’aula 1 di San Pietro in Vincoli (sede del triennio della facoltà di Ingegneria “La Sapienza”); per molti studenti questo evento passò inosservato non essendoci, in quel momento, un’imminente necessità di dover lavorare. Per me, che ero un curioso di natura, che osservavo tutto ciò che mi circondava, e non solo quello che mi riguardava direttamente,  quella circostanza mi fece capire che qualcosa stava cambiando; da studente “menefreghista” – nel senso naturale del termine, in quanto studente e non ancora lavoratore ufficiale – avevo comunque captato il vento della crisi.

Dopo la laurea, leggevo spesso gli annunci di lavoro su vari quotidiani e sul giornale “Porta Portese”, annunci sempre più rari e meno appetibili; la crisi stava iniziano a mordere fagocitando anche le nostre residue speranze.

In quel clima di incertezza,  a partire da un annuncio pubblicato su Porta Portese, tentai anch’io la strada per l’estero. Ricordo un colloquio di lavoro, in un sabato mattina, nell’ufficio di una società di costruzioni che operava all’estero, soprattutto in Spagna, in Romania, e negli Emirati Arabi. Avevo da poco terminato il servizio militare, che ho svolto dopo la laurea, avendolo rinviato per motivi di studio. Il colloquio iniziò subito dopo le presentazioni con un responsabile tecnico dell’impresa il quale diede una rapida lettura al mio curriculum, mi mostrò le immagini, proiettate da una lavagna luminosa, di alcuni lavori che stavano realizzando in vari paesi extraeuropei e i dati relativi all’organizzazione dei rispettivi cantieri.

Ero talmente immerso nella visione di quei lavori da non accorgermi che nel frattempo era arrivata un’altra persona; si trattava di un commercialista dell’impresa che aspettò, restando in piedi, la fine della presentazione. Si accesero le luci della stanza e mi fu presentato anche il commercialista che mi illustro le mansioni che avrei dovuto svolgere e le clausole dell’eventuale contratto.

L’impresa mi chiamò circa un mese dopo il colloquio per la stipula del contratto di lavoro, con la condizione che sarei dovuto partire per la Spagna da lì ad una settimana. Nel frattempo avevo aperto la partita IVA, per esercitare la libera professione, ed accettato una proposta di lavoro, come funzionario di un ente pubblico, della durata di un anno; fui selezionato sulla base di una graduatoria – stilata in funzione dell’età, del voto di laurea e di abilitazione – con i dati trasmessi, su richiesta dell’ente interessato, dall’ordine provinciale degli ingegneri.

Per ironia della sorte, tornato a casa, dove ancora stavo in affitto dal periodo in cui ero studente, trovai un messaggio sulla mia segreteria telefonica a nastro; il messaggio era questo: «È arrivato un telegramma per un’offerta di lavoro; devi rispondere subito, chiamami!». Il messaggio era di mia madre che, sapendo bene cosa significhi lavorare, mi invitava a non perdere tempo e, anche se non me lo disse direttamente, ad accettare l’offerta di un lavoro sicuro. Fu così che accettai quel lavoro e lo portai avanti con volontà ed impegno per un intero anno. Ripresi, subito dopo, e senza alcun indugio, l’attività di libera professione, con molta speranza e senza alcuna delusione.

Sono passati molti anni da allora, mi guardo allo specchio e vedo una naturale trasformazione: un’immagine offuscata di quel giovane ingegnere che ancora si legge nel velame del tempo, con un nitido ricordo di quegli anni passati ed un futuro ancora incerto.

Dagli anni novanta siamo giunti al 2020; trent’anni circa di cambiamenti epocali, di sconvolgimento e di trasformazione, nella naturale evoluzione e nel progresso della nostra specie.

Il 2020 è anche l’anno del “Pacchetto 2020” dell’Unione Europea, che prevede, entro il 2020, la riduzione delle emissioni di gas serra del 20%, l’innalzamento al 20% della quota di energia prodotta da fonti rinnovabili e il miglioramento del 20% dell’efficienza energetica, il tutto assumendo come baseline di riferimento l’anno 1990. L’obiettivo comune dei paesi membri è quello di contrastare i cambiamenti climatici, promuovere l’utilizzo delle fonti di energia rinnovabile e rendere l’Europa più competitiva. Decaduto, nel 2012, il  protocollo globale di Kyoto, l’Unione Europea vuole comunque andare avanti in maniera autonoma, con il resto del mondo che può continuare a consumare ed inquinare liberamente e in piena autonomia.

Così, in questi giorni bui, con i paesi più industrializzati che vogliono inquinare,  un virus “Made in China” invade il pianeta terra. Il piano ambientale europeo sta per essere onorato! È evidente il fatto che, per raggiungere quegli ambiziosi obiettivi comuni, ciascun Paese membro dell’Unione Europea avrebbe dovuto, anzitutto, adottare una comune governance politica, con regole economiche e fiscali (tassazione, costo del lavoro, welfare) opportunamente perequate per far si che tutti i cittadini coinvolti (aziende e singole persone) potessero operare nelle stesse condizioni, con i medesimi strumenti di tutela e di controllo. È inutile che ci sia un Parlamento Europeo, che ci siano commissioni e gruppi politici dei paesi membri, senza una reale partecipazione per una omogeneizzazione relativa delle naturali differenze (culturali, economiche, paesaggistiche, ecc.) che caratterizzano i cosiddetti “popoli”, senza quell’empatia che dovrebbe contraddistinguere qualsiasi Unione che rispetti quelle differenze!

La politica ambientale europea, con il virus di questi giorni, diviene oggi un ossimoro, un nobile concetto teorico che si scontra con il comportamento egoista ed antieuropeo che i singoli paesi membri hanno già attuato per il contrasto della pandemia. La mancanza di una comune strategia di intervento – che i paesi membri avrebbero potuto concepire per tempo, senza i reiterati egoismi dei paesi più virtuosi (normative adottate ad hoc per essere giudicati i primi della classe) – ha creato diversi pesi e diverse misure.

Il nostro Paese, nel piano di difesa e di controllo dell’attuale pandemia, ha adottato la scelta di congelare indistintamente qualsiasi attività, di metterci in letargo e di favorire il cosiddetto “Lavoro Agile”,  definendolo  “Smart Working”, e abbandonando così anche quel residuo di repertorio lessicale (la lingua italiana) che, pur nell’evoluzione della globalizzazione contemporanea, avrebbe dovuto onorare e difendere. Il lavoro agile si svolge tipicamente in casa; se ne avvalgono anche i lavoratori pubblici i quali, tuttavia, non riescono proprio ad abituarsi a dover lavorare quando si è in casa e utilizzando le loro attrezzature (hardware, software e linee internet) che non sono state acquistate e concepite propriamente per lavorare.

Non siamo preparati ancora per questo tipo di lavoro, anche se ritengo sia utile farlo quanto prima, e con la dovuta serietà, per risparmiare tempo e risorse, per razionalizzare i consumi e gli spostamenti e per rendicontare concretamente un’attività di lavoro.

In questa nuova dimensione,  nella quale tutto diviene impersonale, il lavoro dell’uomo cibernetico si misura in “bit” trasmessi e ricevuti; si potrebbe pensare di frammentare le singole attività di lavoro (specializzazioni), formare il personale addetto a ciascuna attività, fornirgli la strumentazione adeguata per lavorare da casa e retribuirlo “a misura”, applicando  una sorta di “prezzario” del lavoro, con regole nuove che potrebbero essere avallate anche dai sindacati, opportunamente rivisti e modernizzati. Lo stipendio scaturirebbe dall’applicazione dei prezzi unitari alle quantità omogenee di lavoro evaso. Così facendo si verrebbe a creare una sorta di flessibilità, consentendo ai lavoratori di gestire il lavoro nei tempi diversi dal classico orario; il lavoro sarebbe virtuoso, e consentirebbe anche, a chi è più produttivo, di guadagnare di più, di essere gratificato per la propria attività e di ritagliarsi del tempo libero. Attuando, inoltre, una sorta di rotazione degli incarichi, si potrebbero limitare quegli stati di permanente frustrazione dovuti allo svolgimento delle medesime attività per prolungati periodi di tempo.

Nel mondo globalizzato, ahimè, questa è la nostra sorte! I lavoratori del comparto privato, ancorché anche loro dipendenti, attuano da tempo il lavoro agile, così come, in parte, anche i lavoratori autonomi. Il lavoro agile appare oggi come un lavoro invisibile che, nella sua volatilità, accelera i bioritmi naturali dell’uomo e che non viene adeguatamente riconosciuto come lavoro produttivo. In realtà, nel “mondo di mezzo” che stiamo vivendo, con l’amorfismo del lavoro, con la crisi dei valori esistenziali, con la mancanza di un’adeguata spiritualità e solidarietà, il lavoro agile diviene uno strumento di autodifesa e di legittimazione del modello di società che ci è stato imposto; l’uomo si ritrova smarrito alla ricerca della sua utilità, torna ed essere un meccanismo microscopico dell’Universo. Non esiste più alcun Salvatore; la “gloria di colui che tutto move” sembra essere svanita nelle tenebre degli inferi.

Con una visione meccanicistica e platonica, potremmo tornare ad immaginare l’universo come un grande animale, permeato da un’anima e governato dalle medesime leggi che caratterizzano l’uomo; oggi, il grande animale vuole liberarsi delle pulci umane e spruzza un virus per disinfettarsi.

Se è vero che gli antichi pensavano troppo, fino ai limiti della loro fantasia, è altrettanto vero che noi non pensiamo affatto, fino ai limiti della nostra idiozia. 

Tornando al discorso, possiamo inoltre osservare come la libera professione, un tempo ritenuta un’attività di rilevo per la nostra società e, come tale, rispettata e considerata, sia oggi divenuta un’attività di risulta, piena zeppa di persone disperate, sovraccariche di tasse e di fardelli burocratici.  L’Italia non può rinunciare agli ingegnere autonomi, l’Italia non può continuare a formare gli ingegneri per arruolarli nelle catene dell’e-commerce o nelle filiere dell’agricoltura. Con tanto di rispetto per qualsiasi lavoro, io non riesco proprio a comprendere come si possa essere così ingenui ed autodistruttivi da mandare i nostri giovani a lavorare all’estero, in quei posti nei quali evidentemente vengono apprezzati per quello che sono, senza alcun travestimento vigliacco e senza troppe riflessioni. Non riesco proprio a comprendere il perché ci si ostini ancora a pubblicare bandi per l’affidamento di incarichi pubblici senza prevedere alcun limite di ribasso e senza  remunerazione o, peggio ancora, prevedendo un valore a base di gara di un euro! Non riesco proprio a comprendere le risoluzioni della giurisdizione amministrativa che, in caso di ricorso,  avallano sistematicamente queste scelte idiote!

I giovani professionisti di oggi non hanno alcuna speranza, sono condannati alla schiavitù, ad essere impiegati negli studi delle società a trecento-quattrocento euro nette al mese, ad essere definiti “Partite IVA”.

IVA è l’acronimo di Imposta sul Valore Aggiunto, e definirci Partite IVA equivale ad accettare passivamente la stessa sorte della famosa “partita di giro”, senza rivendicare mai quel Valore Aggiunto (Equo Guadagno) che scaturisce proprio dallo svolgimento del nostro lavoro con senso critico, con responsabilità ed impegno, e senza fare leva negli ammortizzatori sociali, nei bonus del governo e nella cassa integrazione. Non vogliamo assistenzialismo! Vogliamo solamente lavorare, con rispetto e dignità, così come scritto nella nostra Costituzione!

Per ritrovare un po’ di ossigeno, e per limitare lo sperpero incontrollato di risorse comuni, si potrebbe anche pensare – in questo periodo di pandemia, con la crisi economica che già esisteva da tempo e che sarà sempre più aggressiva e diffusa – ad una sorta di “cassa integrazione” per i dipendenti pubblici e per coloro che non possono lavorare da casa in quanto non hanno, oggi, gli strumenti adeguati per farlo, escludendo tutti coloro che comunque non lavorano affatto e non fanno neanche finta di lavorare, avendo a disposizione tutte le possibili giustificazioni “da contratto”. La cassa integrazione, ancorché non prevista per i dipendenti pubblici, potrebbe essere introdotta in quanto più comprensibile per i sindacati e, quindi, potrebbe essere contrattualmente accettata per tradurre, in chiave moderna,  una diversa concezione del lavoro e della flessibilità.

Quando il lavoratore si trova nelle condizioni di dover essere impiegato per un periodo di tempo inferiore all’orario di lavoro, o, in situazioni come quelle attuali, in cui non serve tutto il personale impiegato a pieno regime, si potrà fare leva all’istituto della cassa integrazione per risparmiare risorse e per impiegarle dove occorre. Per essere sintetici e concreti, in questo periodo di magra, dovuto alla pandemia che stiamo vivendo, avrei preferito una scelta di governo che riducesse lo stipendio dei dipendenti pubblici, o di alcuni di essi che non stanno realmente lavorando, a favore di coloro, come i lavoratori autonomi e le imprese private, che continuano a pagare le spese e le tasse senza alcuna possibilità effettiva di lavorare e senza alcuna reale garanzia; tradotto in logica: si dovevano annullare le tasse, anziché sospenderle!

E invece, sono state sospese, con poca chiarezza (ci vuole sempre il commercialista per comprendere bene le varie disposizioni normative), alcune tasse; al contempo si è pensato di favorire la liquidità con prestiti bancari, parzialmente garantiti dallo Stato o dalle Regioni, rendendoli appetibili con l’abbattimento degli interessi (tasso zero). Non ci vuole molto per comprendere come questi prestiti, alle aziende e ai lavoratori autonomi del Paese, siano erogati con lo scopo principale di garantire le imminenti scadenze fiscali e le relative entrate, dello Stato e degli enti locali, e per non disturbare  - anche giustamente, da taluni punti di vista - l’equilibrio dei lavoratori pubblici e dei pensionati. Alcune tasse sono state sospese fino a giugno prossimo; alla scadenza del periodo di sospensione dovremo onorare il pregresso, oltre alle rate delle tasse e dei contributi previdenziali correnti,  alle spese per la ripresa e a tutto il resto.

Naturalmente tale discorso è rivolto soprattutto ai politici, ai parlamentari, ai ministri e ai dirigenti dello stato che non hanno avuto l’unanime coraggio di devolvere qualche mensilità dei loro ricchi emolumenti alla giusta causa del popolo sovrano. Vergogna!

D’altra parte, le attività di libera professione sono state anche classificate come “attività essenziali”, quando i cantieri sono tutti fermi e di essenziale rimane ben poco, quando qualsiasi dipendente pubblico, con il quale occorre relazionarsi, si è eclissato e non risponde neanche al telefono, quando un qualsiasi committente non può venire da noi a visionare e a firmare i documenti o ad esprimere una sua richiesta. Potremmo pensare che il disinteresse diffuso, verso questa categoria di lavoratori, quella dei liberi professionisti, sia da attribuire alla recente consuetudine – iniziata già  qualche decennio fa - a non essere mai considerati dei lavoratori, ovvero alla necessità esplicita di non dover avanzare alcuna futura pretesa. Rinuncio volentieri ad essere definito un libero professionista, purché si torni alla ragione e ad un giusto riconoscimento del nostro lavoro. Non voglio essere definito un lavoratore amorfo, una Partita IVA; potrei essere definito “lavoratore tecnico”, così almeno la parola “lavoratore” potrà forse risvegliare la ragione per essere considerato tale e per rivendicare i miei diritti.

Alcuni politici, con un “posto al sole” e con la nostalgia di un tempo passato, hanno avuto anche la giusta idea (forse) di trovare le risorse nei risparmi bancari corposi, con una sorta di imposta patrimoniale che dovrebbe ripianare, almeno in parte, l’emorragia di liquidità che si sta impiegando per l’emergenza sanitaria e che non sarà, a breve termine, reintegrata con l’ordinaria tassazione, anche perché le tasse sono giunte al limite della sostenibilità e nessuno ha il coraggio di proporre un loro ritocco al rialzo. Chi ha pensato questa soluzione dovrebbe anzitutto dare il buon esempio. Vedremo cosa si farà a questo riguardo.

L’Italia è un Paese con molte eccellenze e con i suoi lati deboli, e per questo non auspico soluzioni copia adottate dagli altri paesi europei: i bonus statali elargiti dalla Germania e dalla Francia non sono, e non debbono essere, gli esempi da seguire! Occorre, a mio avviso, così come sono messe oggi le cose, riacquisire una sana fierezza, un’autonomia di pensiero e di azione che, tradotta in italiano,  non vuol dire fare discorsi diplomatici e in lingua inglese alla commissione europea, non vuol dire “arrangiatevi con lo Smart Working”!

I problemi sono complessi, e nessuno di noi, tantomeno io che sono un lavoratore tecnico (non più libero), riesce a trovare la soluzione ottimale. Io tuttavia non faccio il politico, non faccio il sindaco, l’assessore, il parlamentare o il ministro, e non ho neanche l’ambizione di fare l’amministratore di un condominio! Non interferisco sulle sorti della gente, sulla loro gioia e sui loro dispiaceri! E per questo, oggi, rievocando la storia e l’esperienza del passato, e con il dovuto rispetto, soprattutto per i morti di questa pandemia, mi permetto di dare dei consigli anche sulla moderna gestione del lavoro pubblico, per comprendere anche me stesso, la mia residua liberta, da dove sono venuto e cosa voglio ancora fare.

Non sono uno scienziato, non sono un maestro, non sono un lavoratore di un call center, non faccio parte dell’esercito dei riders! Sono comunque un lavoratore! Sono un libero professionista autonomo (lavoratore tecnico) che ha scelto, con tenacia e convinzione e con spirito fatalista, la sua strada, molto tempo fa, che ha scelto di rimanere nel suo Paese, con tutti i pregi e le difficoltà che tale scelta ha comportato, senza troppi condizionamenti e senza il ricatto di un governo ostile e di un virus dispettoso!

Non voglio cadere, dopo oltre mezzo secolo di vita, nella graticola della schiavitù, non voglio arruolarmi nell’esercito dei giannizzeri! Non sono una partita IVA da sfruttare e lotterò affinché non lo sia neanche mia figlia! Per questo mi permetto di giudicare, con senso critico, i modelli alternativi di istruzione e di lavoro, quei modelli che seguono il mercato perché lo vuole questa Europa! 

Con l’occasione di questo momento, e con le evidenti criticità riscontrate, bisogna senz’altro modificare il nostro atteggiamento nei confronti degli altri paesi membri, acquisire finalmente l’autonomia che ci spetta ed imporre anche qualche nostra regola, qualche nostra sana abitudine. 

L’immagine nel mio specchio non è ancora diventata un’ombra. Non sono un fantasma, e per questo esigo chiarezza e lealtà, per questo esigo Rispetto!

Questo scritto lo dedico alle povere vittime del virus, alla generazione del dopoguerra, che ha lottato per il nostro futuro, per il nostro benessere e per la nostra libertà, alla generazione dei nostri genitori, che è stata travolta improvvisamente da questa pandemia senza avere avuto neanche l’opportunità di difendersi degnamente e senza neanche il giusto conforto dei loro figli.

Con il Dovuto e il Voluto Rispetto.

A cura di Pietro Francesco Nicolai
un Italiano Libero

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