Cambio destinazione d’uso e contributo di costruzione: occhio ai titoli edilizi

Un’Amministrazione non può pretendere il pagamento dei contributi di costruzione se un immobile mantiene sempre la stessa categoria funzionale di origine, dimostrata da atti e titoli edilizi

di Redazione tecnica - 17/02/2023

Un’Amministrazione non può pretendere il pagamento dei contributi di costruzione, nè può invocare un aumento del carico urbanistico se un immobile mantiene la stessa macrocategoria funzionale di origine, dimostrata dai titoli edilizi che si sono succeduti nel tempo.

Lo conferma il Consiglio di Stato con la sentenza n. 1320/2023, respingendo l’appello presentato da un Comune contro una società che aveva acquistato dall’Amministrazione stessa degli spazi adibiti ad uffici pubblici (categoria B/4) e precedentemente in categoria F/8.

Secondo il Comune, la società avrebbe dovuto versare oltre 60mila euro, per un intervento qualificato come "manutenzione straordinaria", consistente in un frazionamento senza cambio di destinazione d'uso; secondo l’amministrazione invece l’intervento, doveva essere configurato come ristrutturazione edilizia, come definita dell'art. 10 comma 1 lettera b) della L.R. n. 16/2008 (..) in quanto il frazionamento determina, altresì, il cambio d'uso dell'immobile da servizi pubblici e/o ad uso pubblico ad uffici privati con conseguente aumento del carico urbanistico, come definito dall'articolo 38, comma 1, lettera b) della L.R. 18/2008”, pertanto richiedeva alla società “la corresponsione di oneri maggiori rispetto a quelli dovuti per la destinazione in atto".

La sentenza del Conisglio di Stato

Già in primo grado il TAR aveva accolto il ricorso della società, specificando che “non risultando mutata la precedente destinazione ad uffici, non sussiste il presupposto - passaggio tra diverse categorie funzionali - sulla base del quale l’amministrazione resistente ha operato la contestata qualificazione dell’intervento edilizio”.

Sulla questione, iI Consiglio ha richiamato l’Adunanza plenaria n. 12/2018 che ha affermato i seguenti principi di diritto:

  • Gli atti con i quali la pubblica amministrazione determina e liquida il contributo di costruzione, previsto dall’art. 16 del d.P.R. n. 380/2001 (Testo Unico Edilizia), non hanno natura autoritativa, non essendo espressione di una potestà pubblicistica, ma costituiscono l’esercizio di una facoltà connessa alla pretesa creditoria riconosciuta dalla legge al Comune per il rilascio del permesso di costruire, stante la sua onerosità, nell’ambito di un rapporto obbligatorio a carattere paritetico e soggetta, in quanto tale, al termine di prescrizione decennale, sicché ad essi non possono applicarsi né la disciplina dell’autotutela dettata dall’art. 21-nonies della l. n. 241 del 1990 né, più in generale, le disposizioni previste dalla stessa legge per gli atti provvedimentali manifestazioni di imperio;
  •  la pubblica amministrazione, nel corso di tale rapporto, può pertanto sempre rideterminare, sia a favore che a sfavore del privato, l’importo di tale contributo, in principio erroneamente liquidato, richiedendone o rimborsandone a questi la differenza nell’ordinario termine di prescrizione decennale (art. 2946 c.c.) decorrente dal rilascio del titolo edilizio, senza incorrere in alcuna decadenza, con l’ovvia esclusione della possibilità di applicare retroattivamente coefficienti successivamente introdotti, non vigenti al momento in cui il titolo fu rilasciato.

In relazione al cambio di destinazione d'uso, il Consiglio ha sottolineato come nel caso in esame tutti i titoli, edilizi e notarili hanno sempre affermato e costantemente ribadita la medesima destinazione a “uffici”.

E per confermarlo ha richiamato l’art. 13 della l.r. n. 16/2008 dal contenuto univoco:

  • "Si definiscono mutamenti di destinazione d'uso funzionale gli interventi volti a trasformare, senza esecuzione di opere edilizie, la destinazione d'uso in atto di una unità immobiliare o di un edificio comportanti il passaggio a diverse categorie di funzioni come definite dalla legge regionale 7 aprile 1995, n. 25 (disposizioni in materia di determinazione del contributo di concessione edilizia) e successive modifiche e integrazioni";
  •  "Per destinazione d'uso in atto si intende quella risultante dal pertinente titolo abilitativo ovvero, in mancanza di esso, da diverso provvedimento amministrativo rilasciato ai sensi di legge ovvero, in difetto o in caso di indeterminatezza di tali atti, quella in essere alla data di approvazione dello strumento urbanistico generale vigente o, in subordine, quella attribuita in sede di primo accatastamento, quella risultante da altri documenti probanti ovvero quella desumibile dalle caratteristiche strutturali e tipologiche dell'immobile esistente”.

Determinazione della destinazione d'uso

La norma regionale è conforme ad un consolidato indirizzo giurisprudenziale in forza del quale:

  • la destinazione d’uso di un immobile deve risultare formalmente dal titolo edilizio di riferimento;
  • la destinazione d'uso giuridicamente rilevante di un immobile è unicamente quella prevista da atti amministrativi pubblici, di carattere urbanistico o catastale, dovendosi del tutto escludere il rilievo di un uso di fatto che in concreto si assume sia stato praticato sull'immobile, risultante da circostanza di mero fatto. Tale uso, quantunque si sia protratto nel tempo, è comunque inidoneo a determinare un consolidamento di situazioni ed a modificare ex sé la qualificazione giuridica dell’immobile;
  • le categorie catastali rilevano ai fini dell’individuazione delle destinazioni delle unità immobiliari ivi censite per cui, in difetto di indicazione nei titoli abilitativi, la precisa ed inequivocabile destinazione catastale costituisce un elemento che non può essere pretermesso o ignorato né dalla P.A. e neppure dai relativi proprietari.

Essendoci stata una variazione del classamento dell'immobile che dalla categoria D/8 è passato alla categoria B/4 ed essendo tale classamento ribadito e confermato nei titoli edilizi che si sono succeduti fino al 2014, riconosciuti sempre validi ed efficaci dall’amministrazione civica, il Comune non doveva, anzi non poteva, affatto prescindere da essi.

Spiega Palazzo Spada che, dato che la destinazione e l’uso funzionale dell’immobile è quello di “uffici”, non ha alcun fondamento fattuale la tesi del Comune secondo la quale la modifica della destinazione d’uso dipenderebbe dal passaggio da “uffici pubblici” a “uffici privati”. Entrambe queste destinazioni appartengono alla medesima classe direzionale (macrocategoria, come previsto dall’art. 23-ter d.P.R. n. 380/2001) e costituiscono, all’’interno di questa, soltanto una ulteriore distinzione delle sottoclassi: direzionale pubblico, direzionale privato.

L’appello è stato quindi respinto, confermando la tesi per cui non si era realizzato alcun cambio di destinazione d’uso e nessun aumento del carico urbanistico.

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