Sanatoria abusi edilizi: dal Consiglio di Stato i presupposti per l'accertamento di conformità

Consiglio di Stato: "L’art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001 consente la sanatoria degli abusi meramente formali"

di Redazione tecnica - 05/12/2022

Con regolarità quasi matematica, soprattutto a ridosso di eventi catastrofici dovuti al fenomeno del dissesto idrogeologico, si parla di condono edilizio e di come l'attuale normativa edilizia non sia in grado di gestire difformità edilizie che non palesano problematiche vincolistiche.

Sanatoria edilizia: l'accertamento di conformità

Il tema viene trattato spesso dai Tribunali, soprattutto nel caso di difformità rispetto al permesso di costruire che la normativa edilizia (il d.P.R. n. 380/2001) non consente di trattare in modo "agevole" diversamente dalle Leggi speciali sul condono intervenute in Italia in 3 diversi momenti storici (1985, 1995 e 2003).

Registriamo un nuovo intervento del Consiglio di Stato che con la sentenza 24 novembre 2022, n. 10358 consente di fare il punto sui presupposti previsti dall'art. 36 del d.P.R. n. 380/2001 (Testo Unico Edilizia) in merito alla possibilità di ottenere un permesso di costruire in sanatoria.

Il caso di specie

Il caso oggetto della sentenza può essere così riassunto:

  • il Comune rilascia il permesso di costruire per la realizzazione di n. 2 villette unifamiliari e n. 4 appartamenti per civile abitazione;
  • durante l’esecuzione dei lavori, insorge l’esigenza di modificare la conformazione planimetrica dei due fabbricati in progetto;
  • viene presentata domanda di variante, sulla quale la commissione edilizia comunale esprime parere favorevole;
  • viene conseguentemente adottato un nuovo permesso di costruire, con il relativo calcolo degli oneri da versare;
  • i lavori vengono ultimati;
  • successivamente i tecnici comunali, a seguito di sopralluogo, riscontrano difformità rispetto al permesso di costruire originario;
  • viene presentata istanza di sanatoria ai sensi dell’art. 36 del d.P.R. n. 380 del 6 giugno 2001, sul presupposto che le opere parzialmente difformi rispetto ai permessi di costruire rilasciati dal Comune sarebbero state comunque conformi alla normativa urbanistica;
  • il Comune notifica la nota con la quale la commissione edilizia si esprime negativamente sull’istanza di conformità;
  • successivamente il Comune ordina il ripristino della situazione assentita con il permesso di costruire;
  • il Tribunale Amministrativo Regionale, con sentenza passata in giudicato, annullava tale ordinanza, avendo riscontrato che il provvedimento sanzionatorio non aveva considerato, nel contestare la volumetria asseritamente non assentita, il secondo permesso in variante ottenuto per un aumento di cubatura;
  • viene presentata una nuova istanza di accertamento di conformità «con opere a farsi»;
  • il Comune, tuttavia, comunica che l’istanza di accertamento di conformità presentata non può essere accolta;
  • la nuova ordinanza viene impugnata al TAR che, questa volta, la respinge.

Da qui il ricorso in secondo grado.

L'accertamento di conformità ai sensi dell'art. 36 del TUE

I giudici di Palazzo Spada ricordano che l'art. 36 del Testo Unico Edilizia (TUE) consente la sanatoria degli abusi meramente ‘formali’, richiedendo a tal fine che gli interventi abusivi siano conformi alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente, sia al tempo della realizzazione dell’opera, sia al momento della presentazione della istanza di sanatoria, non potendosi accogliere l’istituto della c.d. sanatoria giurisprudenziale, la cui attuale praticabilità è stata da tempo esclusa dalla stessa giurisprudenza.

Secondo la Corte costituzionale, la citata norma statale che richiede la verifica della ‘doppia conformità’ deve considerarsi principio fondamentale nella materia del governo del territorio, in quanto adempimento «finalizzato a garantire l’assoluto rispetto della disciplina urbanistica ed edilizia durante tutto l’arco temporale compreso tra la realizzazione dell’opera e la presentazione dell’istanza volta ad ottenere l’accertamento di conformità».

Nel caso di specie, in relazione all’istanza di accertamento di conformità presentata, il Comune ha motivato il proprio diniego in ragione:

  • degli articoli 3 e 4 della legge della Regione Campania n. 19 del 2001, i quali, rispettivamente, prevedono che la legge sul "Piano Casa" non può applicarsi su immobili realizzati in assenza o difformità dal titolo abilitativo e per i quali non sia stata presentata istanza di sanatoria;
  • dell’art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001, il quale prevede che la doppia conformità è applicabile esplicitamente ad interventi già ultimati, conformi sia al momento della realizzazione dell’opera e sia al momento della presentazione della domanda in sanatoria;
  • degli articoli 10 e 11 del regolamento urbanistico ed edilizio comunale (R.E.U.C.);
  • dell’incremento volumetrico realizzato abusivamente, pari a circa il 47,2% di quanto assentito con il secondo permesso di costruire in variante.

Il diniego di sanatoria

Come correttamente ritenuto dall’Amministrazione comunale, osta all’accertamento di conformità il dato per cui l’area oggetto di intervento ricade, per una parte, in zona satura senza più capacità edificatoria, e per la restante parte in zona non più edificabile.

La tesi dell’appellante ‒ secondo cui il requisito della doppia conformità dovrebbe rinvenirsi mediante l’applicazione degli aumenti volumetrici consentiti (anche in deroga agli strumenti urbanistici) dal "Piano Casa", tanto al momento di realizzazione delle opere abusive che al momento della presentazione dell’istanza di accertamento di conformità ‒ è destituita di fondamento.

Secondo l’orientamento del Consiglio di Stato, gli interventi di ampliamento previsti dalle norme del c.d. "Piano casa" sono ammessi soltanto se, da un lato, non siano stati già abusivamente realizzati ma siano previamente e ritualmente assentiti mediante idoneo titolo abilitativo e, d’altro lato, l’edificio cui accedono sia stato realizzato legittimamente ovvero, ancorché realizzato abusivamente, sia stato previamente sanato.

Al "Piano Casa" non è ricollegabile la portata sanante erroneamente predicata dall’appellante. Si tratta infatti non di una normativa di condono, bensì di una previsione eccezionale che rifletteva l’esigenza congiunturale di promuovere gli investimenti privati nel settore dell’edilizia come misura di contrasto alla crisi economica e per la tutela dei livelli occupazionali, destinata ad operare per un arco temporalmente limitato e come tale soggetta a stretta interpretazione.

Tale assunto si desume ‒ oltre che dalle predette considerazioni sistematiche ‒ anche dalla lettera della legge della Regione Campania 28 dicembre 2009, n. 19 (Misure urgenti per il rilancio economico, per la riqualificazione del patrimonio esistente, per la prevenzione del rischio sismico e per la semplificazione amministrativa), la quale prevede che:

  • «in deroga agli strumenti urbanistici vigenti è consentito, per uso abitativo, l’ampliamento fino al venti per cento della volumetria esistente per i seguenti edifici: a) edifici residenziali uni-bifamiliari; b) edifici di volumetria non superiore ai millecinquecento metri cubi; c) edifici residenziali composti da non più di tre piani fuori terra, oltre all’eventuale piano sottotetto» (art. 4);
  • gli interventi di ampliamento in deroga «non possono essere realizzati su edifici che al momento della presentazione della denuncia di inizio di attività di edilizia […] o della richiesta del permesso a costruire risultano realizzati in assenza o in difformità al titolo abilitativo per i quali non sia stata rilasciata concessione in sanatoria» (art. 3, comma 1, lettera a);
  • gli stessi interventi di ampliamento sono subordinati alla preventiva richiesta ed al previo rilascio di idoneo titolo abilitativo edilizio (art. 12, comma 1);
  • la disciplina derogatoria «si applica soltanto ai fabbricati regolarmente autorizzati al momento della richiesta di permesso a costruire» (art. 12-bis, comma 1).

In conclusione, il Consiglio di Stato ha rimarcato che solo una parte della volumetria abusivamente realizzata sarebbe rientrata nelle percentuali di ampliamento consentite dal "Piano Casa".

Come documentato dall’Amministrazione comunale, nei grafici allegati alla relazione tecnica asseverata in atti (relativa alla richiesta di permesso di costruire in sanatoria) si rileva una volumetria totale pari a:

  • mc 722,46 per il corpo ‘B’;
  • mc 1.365,15 per il corpo di fabbrica ‘C’;
  • ulteriori mc 226,00, di cui mc 109,00 per mt 0,80 dal piano di calpestio, mc 26 per solaio di copertura, mc 91 per un asserito pacchetto isolante mai realizzato.

L’aumento di volumetria richiesto ammontava dunque a circa il 47% di quello assentito ‒ pari a mc 1604,83 ‒ con il secondo permesso di costruire in variante.

La sanzione alternativa alla demolizione

In riferimento all’omessa applicazione della sanzione pecuniaria alternativa alla demolizione (per impossibilità di esecuzione senza pregiudizio per la parte conforme), è dirimente considerare, ai fini del rigetto della censura, che solo in caso di interventi eseguiti in parziale difformità, la sanzione pecuniaria può costituire una deroga alla regola generale della demolizione negli illeciti edilizi (in tal senso, depone chiaramente la lettera dell’art. 34 del d.P.R. n. 380 del 2001), e peraltro la possibilità di sostituire la sanzione demolitoria con quella pecuniaria deve essere valutata dall'Amministrazione competente nella fase esecutiva del procedimento, successiva ed autonoma rispetto all’ordine di demolizione.

Nel caso in esame, le opere abusivamente realizzate hanno determinato una significativa trasformazione dell’intervento edilizio, tale da determinare una totale difformità rispetto al titolo originariamente rilasciato.

La valutazione dell'abuso edilizio

Interessante è la parte finale della sentenza che rileva come in termini generali, la valutazione dell’abuso edilizio presuppone una visione complessiva e non atomistica delle opere realizzate: non è dato scomporne una parte per negare l’assoggettabilità ad una determinata sanzione demolitoria, in quanto il pregiudizio arrecato al regolare assetto del territorio deriva non da ciascun intervento a sé stante bensì dall'insieme delle opere nel loro contestuale impatto edilizio e nelle reciproche interazioni. L’opera edilizia abusiva va infatti identificata con riferimento all'immobile o al complesso immobiliare, essendo irrilevante il frazionamento dei singoli interventi avulsi dalla loro incidenza sul contesto immobiliare unitariamente considerato.

Stante l’unitarietà dell’abuso, l’ordine non poteva che coinvolgere tutti i proprietari, obbligati ad eseguire congiuntamente l’attività ripristinatoria (tale obbligazione ‘collettiva’ lascia ovviamente ferma la ripartizione, nei rapporti interni, del peso economico dell’intervento demolitorio).

Non è possibile ‘aggirare’ le misure di contrasto dell’abusivismo edilizio opponendo l’intervenuta separazione proprietaria di un compendio immobiliare.

Sotto altro profilo, in ragione dell’acclarata abusività dei manufatti, l’ordine di demolizione è atto dovuto e vincolato e non necessita di motivazione aggiuntiva rispetto all’indicazione dei presupposti di fatto e all’individuazione e qualificazione degli abusi edilizi, senza che sia configurabile alcun affidamento in ordine alla realizzazione di attività costruttive contra legem.

È noto altresì che il terzo in buona fede, in quanto attuale proprietario di un immobile, è legittimamente individuato quale destinatario del provvedimento di demolizione, trattandosi di illecito permanente e di natura reale. L’acquirente di un immobile succede nel diritto reale e nelle posizioni attive e passive che facevano capo al precedente proprietario e che sono inerenti alla cosa, ivi compresa la sua abusiva trasformazione, subendo gli effetti sia del diniego di sanatoria, sia dell’ingiunzione di demolizione successivamente impartito (ferma restando la tutela civilistica nei confronti del venditore).

Secondo la giurisprudenza consolidata del Consiglio di Stato, neppure può avere rilievo, ai fini della validità dell’ordine di demolizione, il tempo trascorso tra la realizzazione dell’opera abusiva e la conclusione dell’iter sanzionatorio.

La mera inerzia da parte dell’amministrazione nell’esercizio di un potere-dovere finalizzato alla tutela di rilevanti finalità di interesse pubblico non è idonea a far divenire legittimo ciò che (l’edificazione sine titulo) è sin dall’origine illegittimo.

Allo stesso modo, tale inerzia non può certamente radicare un affidamento di carattere ‘legittimo’ in capo al proprietario dell’abuso, giammai destinatario di un atto amministrativo favorevole idoneo a ingenerare un’aspettativa giuridicamente qualificata.

Non si può applicare a un fatto illecito (l’abuso edilizio) il complesso di acquisizioni che, in tema di valutazione dell’interesse pubblico, è stato enucleato per la diversa ipotesi dell’autotutela decisoria. Non è in alcun modo concepibile l’idea stessa di connettere al decorso del tempo e all’inerzia dell’amministrazione la sostanziale perdita del potere di contrastare l’abusivismo edilizio, ovvero di legittimare in qualche misura l’edificazione avvenuta senza titolo, non emergendo oltretutto alcuna possibile giustificazione normativa a una siffatta – e inammissibile – forma di sanatoria automatica.

Se pertanto il decorso del tempo non può incidere sull’ineludibile doverosità degli atti volti a perseguire l’illecito attraverso l’adozione della relativa sanzione, deve conseguentemente essere escluso che l’ordinanza di demolizione di un immobile abusivo debba essere motivata sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale al ripristino della legalità violata. In tal caso, è del tutto congruo che l’ordine di demolizione sia adeguatamente motivato mercé il richiamo al comprovato carattere abusivo dell’intervento, senza che si impongano sul punto ulteriori oneri motivazionali, applicabili nel diverso ambito dell’autotutela decisoria.

Il decorso del tempo, lungi dal radicare in qualche misura la posizione giuridica dell’interessato, rafforza piuttosto il carattere abusivo dell’intervento.

Anche nel caso in cui l’attuale proprietario dell’immobile non sia responsabile dell’abuso e non risulti che la cessione sia stata effettuata con intenti elusivi, le conclusioni sono le stesse.

L'acquisizione gratuita al patrimonio comunale delle opere abusive

Anche le censure mosse avverso l’acquisizione gratuita al patrimonio comunale delle opere abusive, non possono essere accolte.

La gratuita acquisizione al patrimonio indisponibile del comune dell’area sulla quale insiste la costruzione abusiva ‒ come si desume anche dalla lettera dell’art. 31 del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia), il quale ne subordina l’effetto al previo accertamento dell’«inottemperanza» all’ingiunzione a demolire ‒, non è una misura meramente strumentale, bensì costituisce una sanzione autonoma che consegue ad un duplice ordine di condotte, poste in essere da chi, dapprima esegue un’opera abusiva e, poi, non adempie all’obbligo di demolirla, in conformità della regola.

Mentre l’ordine di demolizione, avendo natura ripristinatoria, prescinde dalla valutazione dei requisiti soggettivi del trasgressore, applicandosi anche a carico di chi non abbia commesso la violazione, ma si trovi al momento dell’irrogazione in un rapporto con la res tale da assicurare la restaurazione dell’ordine violato, l’ulteriore misura sanzionatoria, consistente nell’acquisizione gratuita dell’immobile, non può essere disposta quando non è possibile muovere alcun addebito di responsabilità nei confronti di chi la subisce.

La misura in parola costituisce, infatti, una sanzione «penale» ai sensi dell’art. 7 della CEDU, in ragione della sua dimensione intrinsecamente «afflittiva» ‒ la quale costituisce un indice sostanziale sufficiente, fin dalle sentenze 8 giugno 1976, Engel contro Paesi Bassi, e 21 febbraio 1984, Öztürk contro Germania, per qualificare una sanzione come “pena” ai fini dell’applicazione delle garanzie assicurate dalla Convenzione ‒, di talché può venire disposta solo nei confronti di colui la cui responsabilità sia stata accertata in ragione di un legame intellettuale, in termini di coscienza e volontà, con i fatti.

In mancanza di tale nesso soggettivo, l’effetto acquisitivo in favore del comune eccederebbe senza dubbio la finalità di ripristino della legalità violata.

Sennonché, il proprietario di un bene abusivo (anche in caso di abuso commesso da terzi) che voglia scongiurare l’effetto ablativo a suo danno del diritto di proprietà, deve comunque dimostrare di essere stato impossibilitato, per una ragione non riconducibile a sua colpa, ad eseguire l’ingiunzione di demolizione.

Siffatto comportamento attivo ‒ il quale non costituisce un «onere individuale eccessivo» ‒ si impone al fine di bilanciare: da un lato, il vincolo di non potere applicare una sanzione afflittiva, se non quando sia possibile muovere un giudizio di rimprovero nei confronti del destinatario della misura afflittiva; dall’altro, quello di non incentivare comportamenti opportunistici volti a paralizzare l’azione amministrativa di vigilanza e tutela del territorio.

Nel caso in esame, l’appellante non ha dedotto né provato di essersi concretamente attivato per effettuare la disposta riduzione in pristino unitamente con gli altri proprietari dell’immobile e di non aver potuto provvedere alla demolizione per la contrarietà di costoro.

Come correttamente affermato dal giudice di prime cure, la sola richiesta al Comune di indicare le parti di immobile di loro proprietà da demolire non appare sufficiente ad integrare la condizione di proprietari incolpevoli, nei cui confronti non sarebbe possibile disporre l’acquisizione.

Responsabilità individuale e acquisizione dell’intero immobile

Per gli stessi motivi non coglie nel segno l’asserita sproporzione tra la responsabilità individuale e l’acquisizione dell’intero immobile.

Per quanto attiene alla sanzione amministrativa pecuniaria, di cui all’art. 31, comma 4-bis, del d.P.R. n. 380 del 2001, è dirimente considerare che tale disposizione è finalizzata a sanzionare la mancata rimozione dell’abuso e non la sua realizzazione. Il presupposto, infatti, è rappresentato dalla constatata inottemperanza all’ordine di demolizione. Si tratta, in particolare, di una misura coercitiva indiretta, volta ad indurre i soggetti che, potrebbero anche non avere responsabilità nella realizzazione dell’abuso, a rimuovere lo stesso, laddove ne abbiano la possibilità materiale e giuridica.

Per tutte le ragioni sopra indicate, l'appello è stato respinto.

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