Agenzia delle Entrate: Versamenti ingiustificati sul conto pari a compensi non dichiarati

Per i lavoratori autonomi, è stata dichiarata illegittima la disposizione sulle movimentazioni bancarie non giustificate, secondo cui si presumeva che i prel...

01/09/2016

Per i lavoratori autonomi, è stata dichiarata illegittima la disposizione sulle movimentazioni bancarie non giustificate, secondo cui si presumeva che i prelevamenti dovessero considerarsi compensi non dichiarati, da recuperare a tassazione. Così si è espressa la Cassazione, con la sentenza n. 16697 del 9 agosto 2016.

L’iter processuale di merito

La vicenda fiscale traeva origine da una verifica operata dalla Guardia di finanza a carico di una Srl, nel corso della quale i militari, appurando che un contribuente, di professione aiuto-regista, conviveva con la figlia del legale rappresentante della predetta società, ritenevano di estendere le indagini tributarie anche a suo carico. Alla chiusura di queste ultime, veniva rilevato che, nell’anno 1997, l’aiuto-regista aveva effettuato una considerevole mole di operazioni su due conti correnti intestati al medesimo e con movimentazioni di somme di denaro di notevole entità.
La rilevanza di dette operazioni non risultava, però, congrua e giustificabile in rapporto al reddito di lavoro autonomo dichiarato dal contribuente per l’anno d’imposta oggetto di controllo.
Pertanto, sulla base delle risultanze contenute nel pvc conclusivo redatto dalla Guardia di finanza, l’Agenzia delle Entrate procedeva all’emissione e alla successiva notifica di un avviso di accertamento con il quale venivano recuperati a tassazione, per l’anno 1997, il maggior imponibile rilevato dalle movimentazioni sui due conti correnti per un ammontare complessivo di 900.129.300 lire nonché gli acquisti di beni e servizi non assoggettati a Iva per 714.409.638 lire.
Il contribuente proponeva ricorso contro il suddetto atto di rettifica, che veniva rigettato dalla Ctp, con sentenza però riformata dai giudici di appello, i quali sostenevano che:

  • la constatata connessione tra la società originariamente controllata e il contribuente – la quale aveva fatto scattare l’ampliamento dell’attività di verifica a carico di quest’ultimo – avrebbe dovuto spingere i militari verbalizzanti “…a riscontrare i soggetti interessati ai movimenti bancari sui conti…” dello stesso contribuente anche in riferimento al contenuto di un atto notorio, sottoscritto dall’amministratore della società e presentato in giudizio, con il quale veniva dichiarato che i conti correnti esaminati erano stati accesi con l’esclusivo scopo di farvi transitare le operazioni svolte dalla compagine sociale
  • l’onere di provare la supposta fittizietà delle transazioni commerciali poste in essere per interposta persona gravava sull’ufficio
  • l’Amministrazione finanziaria aveva “…trasformato in deduzioni precise e concordanti, semplici sospetti (…) pur se connotati di un alto grado di probabilità…”, le quali, comunque, dovevano “…ricevere il riscontro di un indizio concreto, quale ad esempio la dichiarazione di uno degli imprenditori della inerenza ad una transazione commerciale effettivamente intrattenuta dal soggetto destinatario dell’accertamento”. 
    L’Agenzia delle Entrate ha interposto ricorso per cassazione, con la proposizione di due motivi, avverso la pronuncia della Ctr appena sintetizzata e al quale il contribuente ha resistito con controricorso.

La decisione

La Cassazione ha accolto il ricorso proposto dall’Amministrazione sulla base delle seguenti motivazioni.
L’ufficio, con il primo motivo di gravame, ai sensi dell’articolo 360, comma 1, n. 3) cpc corredato da opportuno interrogativo di diritto, ha lamentato la violazione e falsa applicazione, da parte della Ctr, del combinato disposto degli articoli 32 e 39 del Dpr 600/1973, degli articoli 51, comma 2 e 54, comma 2, del Dpr 633/1972, nonché degli articoli 2697, 2727, 2728 e 2729 cc, in quanto i giudici di secondo grado hanno posto a carico dell’Agenzia la necessità di perfezionare, con successivi e concreti rilievi probatori, le risultanze indiziarie contestate rinvenienti dalle operazioni movimentate sui due conti correnti e ritenute inconciliabili con il livello di reddito dichiarato.
Sul punto, inoltre, l’ufficio ha affermato che il giudice di gravame ha errato laddove ha stabilito che non si potevano esigere giustificazioni dall’intestatario dei conti correnti in considerazione del suo diritto alla riservatezza.
La Corte suprema, come anticipato, ha ritenuto fondato il motivo di ricorso, così come riassunto, partendo da una ricostruzione sistematica della normativa e della giurisprudenza riguardante le indagini bancarie.
Come detto in premessa, l’avviso di accertamento, originariamente impugnato, recuperava a tassazione tutta una sequenza di movimentazioni – versamenti e prelevamenti – compiute sui conti correnti intestati al soggetto lavoratore autonomo e qualificate quali “compensi” nella vigenza, alla data del deposito della sentenza di secondo grado impugnata (14/5/2009), dell’articolo 32, comma 1, n. 2), Dpr 600/1973 il quale, con riferimento alle operazioni bancarie, stabiliva che “…sono, altresì, posti come ricavi o compensi a base delle stesse rettifiche ed accertamenti, se il contribuente non indica il soggetto beneficiario…”.
Come noto, la Corte costituzionale, con la sentenza 228/2014, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della suindicata disposizione normativa limitatamente alle parole “o compensi”, sostenendo che le presunzioni poste a fondamento dei recuperi fino allora operati sulle attività dei lavoratori autonomi fossero lesive dei principi di ragionevolezza e capacità contributiva.
Sulla scia della predetta pronuncia si è innestata la giurisprudenza di legittimità che, con successive pronunce (cfr Cassazione, 23041/2015) ha definitivamente sancito la decadenza dell’automatismo presuntivo di imputazione dei prelevamenti effettuati sui conti correnti quali ricavi da ascrivere all’attività di lavoro autonomo o professionale; con l’ovvia conseguenza di trasferire in capo all’Amministrazione finanziaria l’onere di dimostrare, per l’appunto, che i prelievi non giustificati e non annotati nei registri di contabilità siano utilizzati dal professionista per il conseguimento di componenti positivi di reddito.
Resta, per converso, immutata la disciplina presuntiva relativa ai versamenti operati dai predetti soggetti (lavoratori autonomi) sui propri conti correnti; essa, infatti, connotandosi quale fonte legale, non esige la sussistenza dei requisiti di gravità, precisione e concordanza richiesti dall’articolo 2729 cc.
Nel caso concreto, pertanto, a parere della Cassazione, i giudici di appello hanno errato nel ritenere estendibile anche ai versamenti contestati dall’ufficio al contribuente lavoratore autonomo quanto risultante dalla modifica normativa alla disciplina di settore intervenuta a seguito della pronuncia della Corte costituzionale con riferimento ai prelevamenti da conto corrente ponendo, quindi, a carico dell’Amministrazione un obbligo assolutamente non spettante.
Il secondo motivo di ricorso proposto dall’Agenzia – relativo alla denunciata violazione, ai sensi dell’articolo 360, comma 1, n. 5) cpc di omessa e insufficiente motivazione della sentenza di secondo grado per non aver chiarito le ragioni in base alle quali, quantunque il contribuente godesse della disponibilità di ingenti somme di denaro inconciliabili con il livello reddituale dichiarato, sarebbe spettato all’ufficio l’onere di comprovare una circostanza, fra l’altro, mai confutata ovverosia che gli importi oggetto di contestazione, di competenza di una terza società, fossero stati fittiziamente intestati al contribuente – è stato dichiarato assorbito in ragione dell’accoglimento della prima eccezione sollevata.

A cura dell’Agenzia delle Entrate

© Riproduzione riservata