Condono edilizio: è possibile su un'opera priva delle tompagnature?

Il Consiglio di Stato sul condono edilizio (legge 47/1985) di un'opera priva di tompagnature, pareti laterali costituenti parte integrante della sua struttura

di Redazione tecnica - 30/12/2020

Condono edilizio ai sensi della Legge n. 47/1985: può dirsi condonabile un’opera in parte priva delle tompagnature, ovvero delle pareti laterali costituenti parte integrante della sua struttura?

Primo condono edilizio: la sentenza del Consiglio di Stato fissa le regole

A rispondere a questa domanda ci ha pensato il Consiglio di Stato con la sentenza n. 7006 del 13 novembre 2020 che ha confermato la precedente decisione del tribunale di primo grado e ripreso un concetto già espresso in tema di condono edilizio.

Il caso riguarda il ricorso presentato per l'annullamento di una sentenza del TAR che aveva confermato il diniego di concessione edilizia emesso dal Comune che aveva respinto l'istanza di variazione di prospetto e completamento delle opere interne di un fabbricato già interessato da un provvedimento di condono edilizio in quanto ritenuto inefficace per inesistenza delle opere condonate.

Secondo il ricorrente:

  • la precedente concessione edilizia in sanatoria non poteva considerarsi inefficace per inesistenza dell’abuso perché tale provvedimento non era stato mai rimosso in autotutela;
  • il condono edilizio aveva riguardato opere effettivamente realizzate essendo il piano attico, al momento della sospensione dei lavori , individuabile nella sua estensione plano-volumetrica con la copertura ed i balconi;
  • l’Amministrazione sarebbe incorsa nella violazione dell’art. 43 della legge n. 47/1985 laddove consente il completamento dell’unità immobiliare condonata.

Le regole per il condono delle opere

Il Consiglio di Stato ha ricordato una precedente decisione con la quale, in tema di condono edilizio, era stato chiarito che ai fini dell’ultimazione del fabbricato sono necessarie non solo le tompagnature esterne, ma anche l’esistenza di una copertura che ha la funzione di definire le dimensioni dell'intervento realizzato, dal punto di vista della sagoma e del volume mentre, dal punto di vista costruttivo, ha lo scopo di rendere conto della compiutezza della realizzazione stessa.

Secondo l'appellante, però, il nodo cruciale sarebbe stata l'applicabilità dell’art. 43, comma 5, primo periodo della legge n. 47/1985 che prevede “Possono ottenere la sanatoria le opere non ultimate per effetto di provvedimenti amministrativi o giurisdizionali limitatamente alle strutture realizzate e ai lavori che siano strettamente necessari alla loro funzionalità. Il tempo di commissione dell'abuso e di riferimento per la determinazione dell'oblazione sarà individuato nella data del primo provvedimento amministrativo o giurisdizionale”.

Sull'applicabilità della disposizione appellata, i giudici del Consiglio di Stato hanno rilevato:

  • che tale disposizione si riferisce chiaramente all’ipotesi in cui, contestualmente alla richiesta di sanatoria degli abusi commessi, l’interessato abbia necessità di completare funzionalmente le opere interrotte a causa di provvedimenti amministrativi o giurisdizionali (p.es. un sequestro o un ordine di sospensione), per tale evenienza legittimando una nozione di “ultimazione” degli abusi – per così dire - più elastica di quella adottata in via ordinaria, ma esclude la possibilità che, dopo il rilascio della concessione in sanatoria, il beneficiario di quest’ultima possa vantare una pretesa al rilascio di un ulteriore titolo abilitativo per eseguire ulteriori lavori sul manufatto condonato;
  • che, in un caso analogo, condivisibile giurisprudenza ha ritenuto che “l’art. 43, ultimo comma della legge n. 47/1985 (richiamato dall'art. 32, comma 28 della legge n. 326/2003) può essere applicato ai soli lavori necessari per assicurare la funzionalità di quanto già costruito e non consente, invece, di integrare le opere con interventi edilizi che diano luogo di per sé a nuove strutture”;
  • che, nel caso di specie, l’odierna appellante ottenne nel 1994 una concessione in sanatoria sul chiaro presupposto, da essa stessa dichiarato in domanda, che le opere abusive fossero state ultimate a una certa data utile per fruire del condono, e soprattutto senza avvalersi in alcun modo del beneficio di eseguire le opere di completamento di cui al precitato art. 43, comma 5;
  • che, successivamente, ha presentato nuova domanda di concessione per eseguire ulteriori lavori definiti di “completamento” del manufatto condonato, ma intesi chiaramente come nuovi interventi e non come interventi funzionali e accessori ai pregressi abusi (nella nuova domanda non è affatto menzionato il comma 5 dell’art. 43);
  • che, conseguentemente, in modo del tutto corretto il Comune ha valutato l’ammissibilità di tale nuova domanda secondo le norme vigenti all’epoca in cui è stata presentata, ritenendo gli interventi in questione non consentiti dalla disciplina dettata dalle N.T.A. per il centro storico (e su questo punto nessun rilievo è svolto in appello).

Secondo il Consiglio di Stato, in ragione del carattere vincolato delle valutazioni rimesse al Comune sulla domanda di permesso di costruire, può trovare applicazione l’art. 21-octies della legge n. 241/1990 anche in relazione agli eventuali vizi della motivazione del diniego, laddove emerga che in ogni caso l’esito di un eventuale riesame dell’istanza non possa che essere nuovamente sfavorevole al richiedente.

In conclusione l'appello è stato respinto e il provvedimento con il quale veniva respinta la sua domanda di concessione edilizia è stato confermato.

A cura di Redazione LavoriPubblici.it

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