Pergotenda, gazebo o tettoia: il Consiglio di Stato sui dehors

Palazzo Spada ricorda il necessario carattere temporaneo e precario delle strutture e il loro rapporto con l’eventuale autorizzazione paesaggistica

di Redazione tecnica - 20/02/2023

Analizza in maniera approfondita il concetto di dehors la sentenza n. 1489/2023 del Consiglio di Stato, con la quale i giudici di Palazzo Spada hanno ricordato la difficoltà oggettiva, sia da parte del legislatore che della giurisprudenza, di definire a volte con certezza i confini di un intervento edilizio e la tipologia di strutture.

Installazione dehors: edilizia libera o nuova costruzione?

La questione, in dettaglio, riguarda l’appello presentato da una Soprintendenza contro la sentenza del TAR, che aveva reputato tardivo il parere reso su un’autorizzazione paesaggistica relativa all’installazione di un dehors a ridosso di una gelateria situata in area sottoposta a vincolo paesaggistico.

Nel dettaglio, per la struttura, che teoricamente avrebbe dovuto avere caratteristiche di facile amovibilità e di temporaneità, era stata presentata una scia finalizzata a “stabilizzare” il manufatto, modificandone anche la consistenza, e ad allungare a cinque anni il tempo di permanenza (e conseguente utilizzo) della struttura.

A seguito del diniego, aveva presentato un’ulteriore s.c.i.a. per ottenere la sanatoria ex art. 37 del d.P.R. n. 380/2001 di quanto comunque realizzato. Anche in questo caso l’istanza è stata rigettata, tenendo conto del parere negativo della Soprintendenza che, ipotizzando piuttosto una richiesta di sanatoria ex art. 36 del d.P.R. n. 380/2001 (trattandosi di opera assoggettata a permesso di costruire e non a s.c.i.a.), chiedeva di acquisire copia dell’originaria autorizzazione paesaggistica.

Secondo il TAR, la Soprintendenza si è espressa tardivamente rispetto al termine di 90 giorni previsto dall’art. 167 del d.lgs. n. 42 del 2004 (Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio), e il Comune avrebbe dovuto illustrare più compiutamente e autonomamente le ragioni del proprio diniego, anziché “appiattirsi” sulle considerazioni dell’Amministrazione statale.

Da qui l’appello della Soprintendenza: l’installazione del dehors necessitava ab origine di autorizzazione paesaggistica, non potendo rientrare per caratteristiche tipologiche nella fattispecie di esonero descritta dal regolamento edilizio. La struttura per altro era comunque divenuta abusiva in ragione della sua permanenza nel tempo oltre i limiti della contingenza stagionale consentita dalla legge, motivo per cui essa avrebbe necessitato di sanatoria, non concedibile dato che il manufatto non rientrava tra le tipologie dell’art. 167 del d.lgs. n. 42/2004, in quanto non qualificabile quale struttura “leggera” e conseguentemente di facile amovibilità, oltre che per il fattore temporale, per dimensioni e materiali utilizzati, che lo avrebbero reso una sostanziale estensione del locale commerciale e dunque il normale ambiente di lavoro annesso allo stesso.

La definizione di dehors

Nel valutare il caso, il Consiglio di Stato ha preliminarmente ricordato che per individuare un giusto punto di incontro fra le esigenze di tutela del paesaggio e quelle di sviluppo economico, il legislatore nazionale ha cercato di porre dei “paletti” temporali con la stagionalità delle opere.

Inoltre ha ricordato che sotto il profilo edilizio, i dehors, di fatto assumono una consistenza che varia dalla semplice tenda, o ombrellone ad ampie falde, al box munito di infissi chiusi tipo veranda, possono essere installati liberamente ove rispondano alle caratteristiche di cui all’art. 6, comma 1, lett. e-bis), del d.P.R. n. 380/2001.

La disposizione si riferisce a «opere stagionali e quelle dirette a soddisfare obiettive esigenze, contingenti e temporanee, purché destinate ad essere immediatamente rimosse al cessare della temporanea necessità e, comunque, entro un termine non superiore a centottanta giorni comprensivo dei tempi di allestimento e smontaggio del manufatto, previa comunicazione di avvio dei lavori all’amministrazione comunale».

Dalla lettura della norma emergono due elementi connotanti le strutture:

  • uno funzionale, consistente cioè nella finalizzazione alle esigenze dell’attività, che devono tuttavia essere «contingenti e temporanee», con una durata di massimo 180 giorni;
  • l’altro strutturale, ovvero l’avvenuta realizzazione con materiali e modalità tali da consentirne la rapida rimozione una volta venuta meno l’esigenza funzionale (e quindi al più tardi nel termine di centottanta giorni dal giorno di avvio dell’istallazione, coincidente con quello di comunicazione all’amministrazione competente).

Le difficoltà interpretative connesse alla portata elastica del termine “dehor” non hanno trovato soluzione neppure nei recenti provvedimenti normativi adottati dal Governo allo scopo di superare in generale l’eterogeneità linguistica imperante nel settore dell’edilizia, spesso fonte di prassi diversificate da Comune a Comune a discapito delle più elementari esigenze di certezza del diritto.

Nel Regolamento edilizio-tipo approvato in sede di Intesa Stato-Regioni, in attuazione dell’art. 4, comma 1-sexies del d. P.R. 6 giugno 2001, n. 380, e pubblicato sulla G.U. n. 268 del 16 novembre 2016, dunque, la relativa voce non figura, ma si ritrovano definizioni astrattamente riferibili a strutture simili:

  • la «pensilina», ad esempio, è un «elemento edilizio di copertura posto in aggetto alle pareti perimetrali esterne di un edificio e priva di montanti verticali di sostegno» (definizione n. 38);
  • la «tettoia», identifica un «elemento edilizio di copertura di uno spazio aperto sostenuto da una struttura discontinua, adibita ad usi accessori oppure alla fruizione protetta di spazi pertinenziali» (voce n. 42);
  • la «veranda», un «Locale o spazio coperto avente le caratteristiche di loggiato, balcone, terrazza o portico, chiuso sui lati da superfici vetrate o con elementi trasparenti e impermeabili, parzialmente o totalmente apribili» (n.43).

Non trattandosi, nel caso di specie, di un vero e proprio Regolamento edilizio unico, ma di un sostanziale documento di indirizzo, cui devono ispirarsi i Comuni per la redazione dei propri regolamenti, esso ben avrebbe potuto attingere anche la materia di interesse, in quanto chiamato ad occuparsi delle «modalità costruttive» sia degli immobili che delle loro pertinenze (art. 4 del d.P.R. n. 380/2001).

La definizione di dehors nel glossario dell’edilizia libera

Anche nel Glosario dell’edilizia libera (DM 2 marzo 2018), tra i suggerimenti terminologici con cui individuare gli interventi riconducibili alla previsione di cui all’art. 6, comma 1, lett. e-bis, qui di interesse, non figura ancora una volta la parola “dehor”, bensì quelle di «tensostrutture, pressostrutture e assimilabili», indicazione finale di sintesi che consente di abbracciare tutti i manufatti che condividono con le stesse le caratteristiche costruttive, quali, in particolare, la evidente mancanza di parti murarie.

Il Glossario, peraltro, richiama espressamente anche le indicazioni temporali contenute nella norma primaria, per cui le opere, comunque denominate, per potere essere ricondotte al relativo paradigma nominalistico devono insistere in loco per più di novanta giorni (oggi centottanta).

okAnche in corrispondenza delle esemplificazioni riconducibili al comma e-quinquies della medesima norma figurano voci astrattamente adeguate alla fattispecie in controversia quali i «gazebo» (voce 44), i «pergolati» (voce 46) e le «tende a pergola» o «pergotenda» (voce 60, che arriva a distinguere le due possibili ipotesi, pur sostanzialmente sinonimi).

In ogni caso va ribadita la connotazione come «di limitate dimensioni e non stabilmente infisse al suolo» (per gazebo e pergolati); ovvero la assimilazione alle altre inserite nella medesima voce, quali genericamente le «tende» e la «copertura leggera di arredo» (per tende a pergola e pergotende). E soprattutto, non potendo il decreto travalicare le coordinate fissate dal legislatore primario, di fatto estendendo la nozione di strutture precarie, occorre sempre avere a mente che vuoi che si tratti di un gazebo, vuoi che si parli di una tenda, deve o “arredare” una pertinenza dell’edificio (e quindi non il suolo pubblico, seppure oggetto di concessione) o essere asservita a fini ludici, ma non imprenditoriali.

L'autorizzazione paesaggistica nel Codice dei Beni Culturali

Dal punto di vista della tutela del paesaggio, i dehors necessitano dell’autorizzazione di cui all’art. 146 del d.lgs. n. 42 del 2004, salvo si tratti di opere di lieve entità, per le quali il d.P.R. 13 febbraio 2017, n. 31, ha previsto l’esonero.

In particolare, alla voce “A.16” dell’allegato A (che ne contempla 31), tra gli interventi “liberi” figura l’occupazione temporanea anche di suolo pubblico o di uso pubblico «mediante installazione di strutture o di manufatti semplicemente ancorati al suolo senza opere murarie o di fondazione, per manifestazioni, spettacoli, eventi o per esposizioni e vendita di merci, per il solo periodo di svolgimento della manifestazione, comunque non superiore a 120 giorni nell’anno solare».

L’art. 146, quindi, trova applicazione ogniqualvolta l’installazione travalichi, per durata ovvero, alternativamente o cumulativamente, consistenza, i confini declinati dal d.P.R. n. 31 del 2017.

La norma è stata stemperata dal comma 4 dell’art. 167 che consente di sanare i soli interventi minori espressamente individuati, alcuni dei quali consistenti in difformità da un precedente titolo:

  • a) che non abbiano comportato aumento di superfici o volumi legittimamente realizzati -lett. a
  • b) ovvero l’impiego di materiali in difformità da quelli assentiti;
  • c) altri in interventi ex novo (che egualmente non devono aver determinato aumento di volume o superficie -lett. a), primo periodo), ovvero configurino mera manutenzione ordinaria o straordinaria.

La sentenza del Consiglio di Stato

Nessuna di queste ipotesi è da ritenersi sussistente nel caso di specie in quanto:

  • l’istanza di sanatoria costituiva la prima richiesta di un titolo paesaggistico da parte della Società, che dunque non poteva avere agito in difformità dalla stessa;
  • la struttura ha prodotto superficie e volume e laddove l’intervento si fosse concretizzato nella mera manutenzione ordinaria o straordinaria di un manufatto irrilevante sotto il profilo edilizio e ambientale, non sarebbe stata necessaria alcuna legittimazione postuma.

Spiega il Consiglio che la giurisprudenza amministrativa e penale ha da sempre tentato di chiarire, in maniera adeguata, i connotati dell’opera amovibile e temporanea, come tale non necessitante di titolo edilizio, dato inparticolate dalla sua precarietà. Qualora questo carattere non sia rinvenibile si è in presenza di abuso edilizio e di nuova costruzione, con aumento del carico urbanistico.

La vicenda non può essere definita solo sulla tardività del parere della Soprintendenza: lo spirare del termine non esaurisce il potere della p.a. di pronunciarsi, ma ne dequota il contenuto a mero “suggerimento”, sicché l’Autorità competente al rilascio dell’autorizzazione può tenerne conto, ma non ne è vincolata, dovendosi determinare autonomamente sull’impatto dell’opera sul paesaggio.

In questo caso, l’installazione da parte della Società di un manufatto chiuso su tutti i lati, destinato a permanere per anni su suolo pubblico per espressa volontà del titolare, travalicando da subito i limiti dell’art. 6, comma 1, lett. e-bis, del T.u.e., imponeva la richiesta e, ove sussistenti i presupposti, il rilascio, oltre che di titolo edilizio, anche di autorizzazione paesaggistica.

Il parere della Soprintendenza non sempre è necessario

Non solo: la riscontrata insussistenza delle condizioni pregiudiziali di sanabilità di cui all’art. 167, comma 4, del d.lgs. n. 42/2004 rendeva infatti in radice superfluo e precluso in limine l’accertamento di merito paesaggistico; ragione per cui Comune, anche al fine di evitare inutili aggravi procedimentali, avrebbe potuto arrestare il proprio apprezzamento a tale profilo, senza alcun coinvolgimento della Soprintendenza.

L’art. 146 prevede infatti che l’amministrazione competente, una volta ricevuta l’istanza, verifichi preliminarmente la necessità del titolo, accertando che non si versi in quelle tipologie di interventi per i quali l’art. 149, comma 1, la esclude (art. 146, comma 7).

In sintesi, laddove l’intervento per il quale è richiesto il titolo sia precluso in assoluto, il procedimento deve arrestarsi ad una fase preliminare rispetto al vero e proprio giudizio di compatibilità paesaggistica.

L’appello della Soprintendenza è stato quindi accolto: la struttura non si configura come una struttura precaria e a carattere stagionale, ma come nuova costruzione soggetta a permesso di costruire, non sanabile in quanto situata in area vincolata, motivo per cui il Comune avrebbe dovuto ritenere superflua la richiesta di parere di compatibilità paesaggistica.

 

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