Recesso contratto d’appalto: dopo è possibile chiedere i danni all’impresa?

Una recente sentenza di Cassazione chiarisce che il proprietario che appalta i lavori a un’impresa che gli provoca dei danni, può chiedere il risarcimento anche se ha già effettuato il recesso

di Cristian Angeli - 29/01/2024

Affidare a un’impresa l’appalto di lavori sui propri immobili, si sa, è un’operazione delicata, che impone attenzione nella scelta dell’esecutore e vigilanza sulla correttezza del suo operato. Nessun proprietario, infatti, desidera ritrovarsi a cantiere chiuso con in mano un’opera difettosa. Nel malaugurato caso in cui ciò accadesse, però, il rimedio, è quello dell’art. 1667 cc: l’appaltatore è tenuto a garantire per le difformità e i vizi dell'opera realizzata, purché questa non sia stata accettata dal committente o i vizi fossero da lui conosciuti o riconoscibili.

L’art. 1667, però, si applica solo in caso di lavori terminati. Ma può capitare che un proprietario, notando comportamenti irregolari da parte dell’appaltatore, decida di recedere unilateralmente dal contratto (scelta legittima e prevista dall’art. 1671 cc), per impedire la prosecuzione di un’opera che non lo soddisfa. Cosa accade, allora, se all’interno di tale “cantiere a metà” sono comunque presenti lavorazioni non conformi a quelle commissionate, o se l’impresa ha messo in atto inadempimenti o comunque cagionato danni? La disciplina da applicare, in questo caso, fuoriesce dalla garanzia ex art. 1667, ma ciò non vuol dire che il committente non abbia diritto a ricevere alcun risarcimento del danno eventualmente patito.

La sentenza n. 421 della Corte di Cassazione dell’8 gennaio 2024 viene in aiuto facendo chiarezza sul tema e spiegando che il proprietario che interrompe il contratto d’appalto ben può chiedere non solo il risarcimento, ma anche la restituzione degli acconti già versati.

I fatti di causa

La vicenda sorge quando un’impresa chiama in giudizio la proprietaria dell’immobile che le aveva commissionato l’esecuzione di lavori di ristrutturazione. La proprietaria, infatti, aveva esercitato il diritto di recesso dal contratto d’appalto, sciogliendolo unilateralmente ex art. 1671 cc. In particolare, la ditta chiedeva che la committente fosse condannata a versarle oltre 190 mila euro a titolo di indennità in relazione ai lavori già eseguiti e a copertura delle spese da questa sostenute e del mancato guadagno, così come previsto dallo stesso art. 1671 cc.

In risposta, la proprietaria ha contestato le pretese della ditta ed anzi ha chiesto al Giudice di accertare il suo inadempimento rispetto al contratto, poiché le opere commissionate erano state eseguite male e parzialmente. In primo grado, però, le sue richieste vengono rigettate, e la committente viene condannata a versare all’appaltatore le somme a copertura dei lavori eseguiti e non saldati. La decisione veniva confermata in Appello (con alcune variazioni sull’importo), poiché la proprietaria chiedeva, prima dei danni, la risoluzione per inadempimento di un contratto che risultava già risolto per suo recesso unilaterale, con la conseguenza che rigettare tale domanda comportava il rigetto anche della sua pretesa risarcitoria.

Il ragionamento della Cassazione

La Corte di Cassazione non è dello stesso avviso dei precedenti gradi di giudizio, e slega con un’articolata motivazione la richiesta di risarcimento dei danni dalla domanda (correttamente rigettata) di risoluzione del contratto per inadempimento.

Non c’è dubbio, infatti, che la proprietaria non possa ottenere la risoluzione per inadempimento ex art. 1668 cc, avendo già effettuato il recesso unilaterale. Ma ciò non vuol dire affatto che se l’opera, per quanto incompleta per volere del committente, è viziata dalla cattiva esecuzione dell’appaltatore allora quest’ultimo non debba pagare per il suo inadempimento.

Infatti, spiega la Suprema Corte, la pronuncia in Appello non è corretta perché basata sul fatto che “a fronte del rigetto della domanda di risoluzione per inadempimento […] le domande di restituzione e di risarcimento danni non avrebbero potuto trovare una loro autonoma legittimazione, mentre, invece, tali domande […] ben avrebbero potuto essere esaminate nel merito”. In tal senso, azionare il recesso non impedisce al proprietario di richiedere l’accertamento dei danni e, dunque, il loro ristoro. Allo stesso modo, prosegue la Corte, “benché l'esercizio del recesso impedisca al committente di invocare, in seconda battuta, la risoluzione per inadempimento dell'appalto, la circostanza che l'appaltante si sia avvalso dello ius poenitendi (vale a dire il diritto di recesso, ndr.) non impedisce di esercitare, in favore dello stesso appaltante, il diritto alla restituzione degli acconti versati”.

Come calcolare i danni

Nella pratica, come possono essere calcolati tali danni? Ecco che la sentenza ci offre un ulteriore prezioso elemento. Spiega la Corte, infatti, che se sarà accertata la presenza di danni collegati a inadempimenti dell’impresa, non verrà comunque meno il diritto della stessa di vedersi saldate le opere già eseguite. Tuttavia, l’eventuale risarcimento del danno che dovrà versare l’impresa andrà a ridurre l’indennità da recesso. Nelle parole del Giudice, cioè, “dei danni subiti dall'appaltante per pregresse inadempienze dell'appaltatore si può tenere conto in sede di liquidazione dell'indennizzo spettante all'assuntore, all'esito del recesso esercitato dall'appaltante. In specie, il committente può fare valere tali danni allo scopo di ottenere una proporzionale riduzione dell'indennizzo da questi dovuto, anche se li conosceva al momento del recesso”.

Dunque, se l’importo dei danni supera quello dell’indennizzo spettante all’impresa per il recesso unilaterale del committente, allora quest’ultimo non dovrà versarle alcunché, ottenendo però un risarcimento del danno “parziale”, poiché a questo sarà da scomputare l’indennizzo, che resta dovuto.

Prescrizione più lunga

È evidente che la tutela del committente non viene meno in caso di recesso, superando così il dubbio che la garanzia dell’appaltatore possa attivarsi solo se si scioglie il contratto per inadempimento o che questa sia da prestare solo se, a lavori terminati, l’opera risulti viziata o difforme (art. 1667 cc).

La tutela sopravvive eccome, e non solo, perché la sentenza illustrata offre ancora un ultimo chiarimento. In particolare, la possibilità di chiedere i danni per inadempimento gode persino di termini di prescrizione più lunghi. Infatti, spiega la Cassazione, “ove il rapporto si sia sciolto sulla scorta dello ius poenitendi (il recesso, ndr.) attuato dal committente, la pretesa di quest'ultimo di ottenere la riparazione dei danni conseguenti a fatti di inadempimento addebitati all'assuntore e accaduti in corso d'opera, prima che fosse fatto valere il recesso, ricade nella cornice normativa generale di cui all'art. 1453 cc, sicché non trova applicazione la disciplina speciale sulla garanzia per le difformità e i vizi (quella dell’art. 1667, ndr.), anche con riferimento ai termini di decadenza e prescrizione”.

Ciò significa che quando i lavori sono completati e il committente si vede consegnare un’opera viziata o difforme, egli avrà 2 anni di tempo per far valere i suoi diritti, mentre in caso di recesso unilaterale la disciplina da applicare è quella generale sull’inadempimento (art. 1453 cc), cui consegue l’applicazione del termine di prescrizione ordinario di 10 anni (art. 2946 cc).

A cura di Cristian Angeli
ingegnere, consulente in materia di edilizia agevolata e contenzioso
www.cristianangeli.it

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